Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 25 febbraio 2017

Una ragazza al fronte. Una vera giornalista.

(c) 2017 Rudaw
Shifa Gardi ha perso la vita oggi nell'esplosione di un ordigno (di una mina) nella parte occidentale di Mosul, mentre documentava l'offensiva militare contro lo "Stato islamico". Shifa lavorava come reporter in prima linea per la televisione curda di Erbil Rudaw. Il suo cameraman Younes Mustafa è rimasto ferito. Shifa era nata nel 1986. I colleghi la definiscono come una giornalista molto coraggiosa, con una straordinaria passione e dedizione per il suo mestiere. Faccia da reporter la ricorda e fa il suo nome: Shifa Gardi. Una ragazza al fronte. Una vera giornalista. 

sabato 18 febbraio 2017

"Resistenza" è un tatuaggio sulla pelle.

(c) 2017 weast productions / all rights reserved.

Ho scritto che l'idea di lasciare Palestinesi e Israeliani alla loro sorte è l'ultima trappola posta dalla follia. In relazione alle dichiarazioni della Casa Bianca di qualche giorno fa. L'ho scritto oggi, 18 febbraio. In romancio come si dice “Casa bianca”? Chasa bianca? Blanca? Weissa? Dico romancio, con tutto il rispetto parlando: per definire la portata delle mie riflessioni. Arrivano, se arrivano, alla Svizzera. Quindi: das Weisse Haus, la Maison Blanche. E la Chasa bianca. Anche se, mi sia concesso aggiungerlo, fra le sorgenti del mio pubblico figurano, e con un rispettabile numero di click, gli Stati Uniti. Probabilmente è la CIA o la NSA. Questi click non contano, quindi. Sono stalking. Abituato anche a questo.

Esistono due tipi di giornalisti: quelli che stanno con il potere e quelli che stanno con la loro testata. Che, di nuovo, rappresenta un potere, economico e politico, ideologico, spesso anche un potere vacuo, un pozzo vuoto, per dirla tutta: zero. E poi esistono quelli che stanno con la loro testa. Spesso hanno un Blog. Io sto con il mio Blog, non vuol dire che ho una testa. Vai a chiedere un accredito stampa per il tuo Blog e ti accorgerai che ti prendono a calci. Quindi: un Blog non è una testata. È un Blog e basta. Non è ancora, tuttavia, una garanzia. È un Blog. Punto. Frutto del cervello al quale fa riferimento. Sempre meglio che zero. Da prendere per quello che è. Da discutere e criticare.

Vi invito gentilmente a compiere uno sforzo di memoria storica. Torniamo al dopo 11 settembre 2001. Trascuriamo di chiederci che cosa avrebbe detto e fatto il Presidente George W. Bush se non ci fossero stati gli attentati alle Torri gemelle e al Pentagono. Andiamo a riascoltare, invece, che cosa ha detto. Lavoriamo sui fatti. Non serve recarci in archivio, oppure sfogliare i giornali. C'è Youtube. Andiamo ad ascoltarci che cosa ha detto George W., e che cosa ha detto l'allora segretario di Stato Collin Powell (non andate a guardarvi le fotografie di Platon, lo edificano a posteriori), ascoltiamoci le palle senza fine sulle presunte armi chimiche irachene, con tanto di pseudofialetta agitata di fronte all'Assemblea dell'ONU. Ragazzi! E ascoltiamoci che cosa hanno detto Dick Cheney, Donald Rumsfeld (paura!), Tony Blair e nella seconda amministrazione Bush la signora Condoleeza Rice e tutti gli altri ancora. Vi concedo 15 minuti.

Trascorrono 15 minuti, lentamente.

Avete visto, ascoltato? Vi siete resi conto di che cosa ci siamo bevuti? Di che cosa abbiamo dato per vero, per oro colato? Di che cosa abbiamo accettato, stando zitti, proni, a cuccia, con il cervello spento? Che strano: anche la stampa, all'epoca, non emise un rantolo. Zitta. Zitta anche la stampa. E quindi zitti tutti. Anzi: la stampa a fare da sponsor al silenzio.

Andiamoci a rivedere le dirette dagli studi della CNN ecc., gli articoli dei grandi giornali: “War on terror” era la scritta che figurava ovunque, ogni giorno, ogni secondo. Guerra al terrorismo contro l'Afghanistan, guerra al terrorismo contro l'Iraq. Lo dico per esserci stato non so quante volte, in quei Paesi, poco tempo fa ancora, per averli raccontati mettendoci tutta la mia vita: li hanno distrutti, li hanno ridotti al sanguinamento, allo svenamento, alla morte per emorragia di cui siamo testimoni muti.

Nessuno, allora, aveva chiesto alcunché al Presidente George W. Bush e alla sua squadra. Andava bene tutto. Guerra. War. Qualcuno ha chiesto qualcosa al signor Obama? Nope.

Balzo a ritroso nel tempo.

16 ottobre 2002 (e giorni prima): ero a Bagdad. Seguivo le (ultime) elezioni (si fa per dire) presidenziali, Saddam Hussein c'era ancora. Non si parlava che di “armi di distruzione di massa”. Nel corso di una visita a un sito definito “sensibile” concessa dalle autorità irachene ai giornalisti stranieri, mi ricordo, come fosse questa mattina, un giornalista navigato del New York Times attaccare quei tre o quattro sfigati addetti iracheni messi davanti a dei computer spenti in un sotterraneo che, volendo essere pessimisti, nascondeva alla peggio lattine di Coca Cola e scatolette di caviale, ma non armi chimiche, biologiche o atomiche. Il giornalista americano quasi quasi prendeva a pugni il portavoce del governo iracheno perché alla domanda se in quel luogo fossero nascoste armi di distruzione di massa aveva risposto di no. Aveva detto la verità. In Iraq non c'erano armi di distruzione di massa. Oggi lo sappiamo. Eppure.... Eppure, signore e signori. Sapete come è andata, con la benedizione della stampa. Anche della stampa. Fa male dirlo, ma va detto.

L'Iraq è stato distrutto. Anche l'Afghanistan è a pezzi. Oggi abbiamo entrambi davanti agli occhi. È servito tutto questo a neutralizzare Al Qaeda? No. È servito invece a dare vita ai pezzenti senzacervelloecodardi dello “Stato islamico” (e ci starebbero cento Post, al proposito).

All'epoca, i giornalisti americani erano attaccati alla flebo del loro Governo. Anche i giornalisti europei. Vi ricordate il titolo (credo fosse del Corriere della Sera, o di Repubblica, sto invecchiando...): “Siamo tutti americani"? Lo avevano stampato il giorno dopo l'11 settembre. A ragione. A ragione? No, non a ragione. Lo avevano stampato quale epitaffio al giornalismo che fa domande e fa ricerche e va sul terreno per raccontare quello che vede e scopre, quello, pure, che riesce a prevedere.

Zero, da allora in poi. Un vuoto assoluto. A parte qualche rara eccezione. Zero giornalismo. Un estenuante asservimento, invece. Questo sì.

C'è francamente motivo di festeggiare il fatto che dopo una sorta di letargo perpetuatosi anche durante gli otto anni della Presidenza Obama (dov'era l'ex Presidente in Palestina, in Israele, in Siria, in Iraq, dov'era in Yemen, se non autocollato ai droni armati e sparanti, come fosse questo adesivo l'etichetta di un vino pregiato, dov'era in Pakistan, se non sulla stessa etichetta volante, eccetera?) c'è da festeggiare il fatto che i giornalisti siano tornati a fare domande. A dare fastidio. A rompere le palle. La democrazia è una rottura di palle, per chi sta al potere.

C'è motivo di festeggiare, certo, ma facendoci un po' tutti l'occhiolino, nella consapevolezza taciuta che di vergine sul serio, in questo invito a nozze, non è rimasto nessuno e nessuna, o quasi. Tutti rifatti, con plastiche non proprio a buon mercato, ottenute affidando al tempo trascorso (e alle cliniche della semantica) l'auspicio dell'oblio che avrebbe dovuto cancellare il peccato originale consumato.

Io non sto con il signor Trump: ha letto troppo poco per piacermi, del mondo ha visto troppo poco per convincermi, anche se ne ha fatte tante nella vita, ma queste tante non bastano a farmi cambiare idea, al contrario.

Non sto, però, nemmeno con i e con le neovergini della mia categoria professionale, la categoria dei giornalisti, che oggi strillano quasi dipendesse dal callo che minaccia le loro corde vocali la sopravvivenza della democrazia, non dico negli USA, ma nel mondo. Dov'erano, qualche anno fa? Dove erano?

Non sto, infine, con quelli che stanno con Trump. I libri di Storia insegnano tante cose. Andrebbero letti. C'è odore di olio di ricino e di manganello in giro per il mondo: negli Stati Uniti, in Europa e alle nostre latitudini, anche alle nostre latitudini. Resistenza è un tatuaggio che ci dovremmo fare tutti sulla pelle.

Io sto con quelli che pensano. Al limite sarei disposto a stare anche con i giornalisti neovergini, a condizione che non fingano oppure non strillino in giro che con Trump fa male quasi fosse la prima volta. Sarebbe una fake news. Questa per davvero. Fra le tante che girano. E che sono sempre girate nel mondo.

Il giornalismo è resistenza. Non alternata. Continua.

Benvenuti, a questo punto, ai click dall'America.



venerdì 17 febbraio 2017

Il senso del taccuino.

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Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Le trappole della follia". Eccone un breve estratto:

Rieccola, la “follia”, nelle parole di Miriam. La incontri ovunque, questa parola, quando meno te l'aspetti. Anche quando torni a sfogliare vecchi taccuini con dentro gli appunti scritti 15 anni fa. Capisci che potresti scriverli oggi, parola per parola. Cos'è cambiato? Nulla. Alcune circostanze, certo, ma non la sostanza. Non l'atmosfera. Tutto uguale. C'è da impazzire, sul serio, se uno ci pensa. La narrazione di quella terra non fa che alimentare la sua inarrestabile ripetitività. Pensare che ne escano da soli, che ne escano bene, contenti tutti, contenti gli israeliani e contenti i palestinesi, ma da soli, appunto, è forse l'ultima insidiosa trappola posta dalla follia. Chi lo dice? Lo dice Fares, che ha un piccolo negozio di giocattoli non lontano da Ramallah, in quello che è diventato un quartiere, ma che in realtà è ufficialmente un campo profughi. Vende quattro giocattoli al giorno, quando li vende. La sa lunga, Fares. Dice che da quando è nato non è cambiato nulla: nella sua vita e tutt'attorno. «C'è da impazzire», conclude. Eccola qui, di nuovo, questa parola.


lunedì 13 febbraio 2017

La vita, sciuri...

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La vita, sciuri, fa quello che vuole. Vedere che ci sta dentro un mezzo titolo di qualcosa che sta arrivando. Questione di attendere (quasi) fine marzo.


giovedì 9 febbraio 2017

Cartolina da Mosul.

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- Dicono che il bello della vita è essere vivi. Se lo dicono sarà vero, no?

- C'è Mosul.

- Scusa, c'è cosa?

- Lascia stare. Cè una cartolina da Mosul.

- Da dove?

- C'entra niente. È un modo per dire: quello che sappiamo fare.

- Ne sappiamo fare di cose.

- Hai voglia. 

mercoledì 8 febbraio 2017

Un criceto in prova sanitaria.

(c) 2017 weast productions

Sei alla cassa della Coop e chiedi un pacchetto di sigarette. Con tutto il resto che hai nel carrello (c'è anche della carne, della carne!) uno ti dice: "Füma pü". A parte: chi ti conosce, fratello, okay?, chi ti dice che sono io a fumarle, queste benedette Marlboro? Ho a casa un criceto in prova sanitaria certificata, per dirla in modo diverso una cavia, che si succhia un pacchetto al giorno. Corre e fuma. Vedere cosa gli succede. Per il momento corre. È un esperimento e mi pagano pure.

- Dottore.
- Mi dica.
- Dottore...
- Sì.
- Mmmhhh
- Non ho tutto il giorno per lei...
- Capisco.
- E allora?
- Ho respirato fumo di petrolio non purificato.
- O signur, e dove?
- Iraq, dottore.
- Ah beh, se è l'Iraq, non fa così male.

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Vedi, amico, vedi, amica, esistono posti nel mondo (ne esistono ancora) capaci di produrre una devastante relativizzazione della tua astinenza. Di trasformare la ferrea volontà alla quale avevi sottomesso (non senza esultare) il tuo (che pensavi innato, genetico) desiderio di inalare fumo, fumo di qualsiasi tipo, meglio se di sigaretta, ma andava bene anche un tubo di scappamento, ideale nel caso il diesel, capaci insomma di trasformare il tuo autocontrollo in un crollo.

- Come dice, dottore: Non-fa-così-male-il-fumo-del-petrolio-in-Iraq?
- Non fa male: distrugge. I polmoni.
- Oh bestia.
- Si calmi.
- Sono. Calmo.
- Quelle due ore passate al pozzo di petrolio respirando (perché ha respirato, perché?) equivalgono a migliaia di sigarette.
- O cristo.

(c) 2017 weast productions

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Vedi, sorella, vedi fratello: la vita. Mangi insalata per vivere sano, stai in piedi a roba verde senza sapore, per vivere sano, bevi acqua, e acqua e acqua, per vivere sano, limiti l'utilizzo di incenso negli ambienti domestici, per vivere sano, dici parolacce quando vedi un pacchetto di sigarette e dai del poveraccio (dentro di te) a uno che fuma per strada, ti fai vedere dallo specialista per una ghiandoletta che non sai nemmeno se si è gonfiata due giorni fa oppure è sempre stata lì dalla nascita, e poi finisci a due millimetri da un pozzo di petrolio e anzi ci finisci dentro, dentro un pozzo di greggio in fiamme in Iraq, messo a fuoco da quei pirla dell'Isis, e ne vieni fuori come se avessi fumato migliaia di sigarette.

Averle fumate.

La vita è insuperabile.

(c) 2017 weast productions










sabato 4 febbraio 2017

Lo so che è sabato.


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Lo so che è sabato. Ma: mi è venuta in mente una cosa, e dopo averne trovato un approfondimento leggendo l'ultimo numero della London Review of Books, la scrivo.

La forza delle immagini. La cosa è questa. Va di moda dire che siamo tutti ormai assuefatti alle immagini, insensibili, bombardati dalle immagini eccetera, siano esse fotografiche o in movimento. Non è la prima volta che ne parlo e non sarà l'ultima di cui approfitto per dire che sono palle.

Prendiamo la città siriana di Aleppo, la sua parte orientale, per essere precisi. Ha suscitato paragoni storici con Sarajevo, Dresda, Guernica in relazione alla sorte toccata alla popolazione civile. Ha spinto, addirittura, in parti diverse del mondo, persone a scendere per strada e a manifestare solidarietà.

Che cosa ha originato questa mobilitazione, e prima ancora questa emozione alla quale abbiamo tutti concesso spazio dentro la nostra vita? Le immagini. Le immagini che giungevano da Aleppo est. Nessuno, tuttavia, si è chiesto, si è mai chiesto: chi le realizzava, queste immagini? Ricordate il bambino sull'ambulanza e i volti sporchi di polvere delle persone estratte dalle macerie dopo i bombardamenti?

Non le ha realizzate alcun giornalista professionista, inviato da qualche testata, motivato dal desiderio (ce lo auguriamo tutti) di raccontare la verità. Le hanno realizzate persone sul posto, i cosiddetti media activists.

Non si tratta, qui, di mettere in dubbio la veridicità di queste scene o la buona fede di questi ragazzi. I bombardamenti ci sono stati (siriani e russi) e le vittime pure. È tuttavia indispensabile riflettere sul fatto che la stampa internazionale ha accettato di buon grado di pubblicare fotografie e di mostrare filmati realizzati da sconosciuti, non da giornalisti inviati, ma da persone che vivevano ad Aleppo est, ogni giorno a contatto con i guerriglieri, in particolare con quelli più estremisti e radicalizzati. I quali nelle immagini pubblicate e messe in onda dai media main stream (televisioni pubbliche, giornali blasonati eccetera) non figuravano mai. Perché? Perché chi scattava fotografie o filmava ad Aleppo lo poteva fare soltanto seguendo le direttive di chi comandava: i gruppi armati più influenti. La guerra funziona così. Ci fosse stato un giornalista sul posto avrebbe anche lui potuto scattare soltanto quelle stesse fotografie, e non altre, ma perlomeno avrebbe potuto (dovuto, essere chiamato a) spiegare in che situazione era costretto a lavorare e dichiarare che si trattava di fotografie scattate in condizioni controllate da terzi. Di nuovo: questo elemento (tuttavia importantissimo) non confuta il contenuto delle immagini (a volte potrebbe, ma come verificarlo?, non è sempre possibile), ma ne costituisce tuttavia un'appendice fondamentale, una sorta di irrinunciabile metafile accluso a ciascun fotogramma. In parole povere, è in gioco la trave maestra del giornalismo: l'indipendenza.

Nella pubblicazione e messa in onda di queste immagini, nessuna scritta in sovrimpressione e nessun avvertimento editoriale informava del fatto che la loro fonte era totalmente sconosciuta. La “stampa libera” ha operato una forma di sottile censura che definirei autoassolutoria.

Grazie a queste immagini, tuttavia, la gente è scesa in piazza e tutti abbiamo detto “basta” all'assedio di Aleppo. Le immagini hanno sempre una loro forza, anche quando accettiamo di non chiedere chi le ha realizzate. In realtà, dovremmo sempre chiederlo, e chiedere che ci venga detto. È il solo modo per trasformare il nostro sguardo sul mondo in un atto di indipendenza.

Passo indietro, fino al 2011: quando dalla Siria giungevano le immagini realizzate dai giovani che manifestavano, ancora senza armi, vi ricordate? La stampa, in quell'epoca, si era scatenata, dichiarando che queste immagini le mostrava, ma senza poterne garantire la veridicità. L'opinione pubblica mondiale, ormai stanca di arabi che chiedevano più libertà e un po' di democrazia, chiuse anche il secondo occhio e si addormentò.

Ne riaprì uno per Aleppo, dopo anni di guerra, nel 2016, grazie alle immagini che tutta la stampa metteva in circolo, senza confessare di non averle e di non poterle verificare, di non avere nessun giornalista, diciamo di fiducia, sul posto, senza confessare di sapere che queste immagini erano state scattate e filmate alla presenza di guerriglieri invisibili che controllavano tutto, ad Aleppo est. Servivano immagini e andavano bene quelle, soprattutto perché erano quasi gratis, quando non addirittura gratuite.

Ecco la forza delle immagini, verificate o meno che siano. Tiene svegli sempre, anche quando vengono proposte senza alcuna riserva, quasi fossero provviste (pur non essendolo) di una firma capace di fornire una risposta seria e documentata alla riflessione su chi le ha messe al mondo e in quali condizioni.

Lo ripeto: chiedere questa firma è un modo non soltanto di esercitare la propria indipendenza nei confronti della realtà e del racconto che ce ne viene dato, ma anche di rispettare le vittime.

A Mosul sta succedendo qualcosa che assomiglia ad Aleppo e, anzi, stando alle cifre disponibili e a quanto ho visto sul terreno, supera (o potrebbe superare) Aleppo in relazione alla popolazione civile colpita e in fuga. La particolarità, in questo caso, è che nessuno manda immagini da Mosul. Allo “Stato islamico” non interessa produrre una narrazione focalizzata sulla popolazione civile, se ne infischia, la colpisce sparando o con colpi di mortaio quando tenta la fuga. Al Governo iracheno e alle forze della coalizione (USA, UK) coinvolte sul terreno e in particolare, queste ultime, dall'aria con attacchi aerei non interessa produrre indicatori che forniscano un quadro preciso delle vittime, fra i soldati iracheni e fra i civili.

In assenza di immagini, nessuna redazione è disposta ad andarle a cercare, perché questo significherebbe mettere lo sguardo su una guerra che ha quale nemico un'entità militare e ideologica esecrabile, ma che come tutte le guerre causa vittime anche fra i civili. E quindi? E quindi fa sorgere domande. Dovrebbe, almeno.

Ci si accontenta di qualche sequenza di soldati iracheni coinvolti in combattimenti, più o meno realistici quando non addirittura preparati per l'occasione, in realtà insignificanti nell'assomigliarsi di tutte le azioni di carattere bellico, nella tautologia della guerra.

Se cominciassero a giungere immagini anche da Mosul, dovremmo scendere per strada di nuovo, e chiedere che la sua popolazione venga risparmiata. Da chi? Dallo “Stato islamico”, certo, ma anche dagli altri protagonisti coinvolti, quelli che stanno dalla parte buona. Perché la guerra è così. Non fa differenza, anche se (anche quando) si infila i guanti di velluto.

La forza delle immagini è misurabile in modo particolare quando di immagini non ne esistono. Zero immagini, zero problemi.

Faccia da reporter, invece, qualche immagine di civili in fuga da e dentro Mosul la pubblica. Tanto, è sabato. 

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venerdì 3 febbraio 2017

Il senso del taccuino.

Domani torna Il senso del taccuino. Ho mancato un sabato, perché mi trovavo in un paese nel quale non esiste internet. Sono partito senza modem satellitare, non ne avevo bisogno, non lo volevo con me. Domani, quindi, sulla Regione, vi propongo "Come un respiro profondo".

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Ci sarà lo scatto di un personaggio presentato nel Post precedente, con un'inquadratura diversa, come vi sembrerà chiaro osservandola qui. Per me è importante questa fotografia. Così come lo sono le storie delle persone raccontate: Anna, Farah, suo padre, l'attore africano cieco e indirettamente quella di chi scrive. Ce lo vogliamo leggere un breve estratto dal testo? Ce lo vogliamo. Si riferisce al momento in cui sono tornato "a casa", passando la dogana di Chiasso. La "pancia gonfia" di Anna allude a un suo stato interessante, come si dice. Interessante per chi? Ecco l'estratto:

Oh, Anna. Che della tua storia di donna tradita e con la pancia gonfia hai fatto un racconto che racconta il mondo. E la vita. Serve il coraggio e serve la forza. Da queste righe che mi hai messo fra le mani è venuto fuori un Taccuino che parla anche d'altro. Che sia, per davvero, altro? Pensare che rientrando da un paese lontano, condannato alla responsabilità della propria miseria tuttavia negata da chi lo governa e non soltanto, non soltanto, ho avuto l'impressione di attraversare, a 80 all'ora, campi minati, consolato, ascoltando la radio, e sia pure per poco, dall'immensità di spazio concessa al vaticinio del tempo che potrebbe fare domani (e perché non concesso alla tua vita, questo spazio, Anna?) e, appena prima, consolato ma anche elettrizzato per non dire sollevato dalla notizia che ormai esiste un aspirapolvere senza sacchetto, e prima ancora atterrito dal vuoto terrificante prodotto da chi vorrebbe risolvere i problemi della vita senza nemmeno esserci finito dentro, senza saperne granché, senza saperla, chiuso in un girotondo isterico e insufficiente, insomma accolto, con tanto di indiretto benvenuto, dalla fragilità (dalla mancanza di coraggio) che è la vita affrontata ignorando come è per davvero, metti pure in un'altra parte del mondo, nemmeno troppo lontana. Nemmeno. Anzi: per nulla.


mercoledì 1 febbraio 2017

Operazioni di scavo.

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Operazioni di scavo, dentro un altro continente. La non misurabile infinità della vita. L'attore cieco, uh, che ci ride sopra. Ci fuma sopra. E forse anche un po', uh, uh, sopra ci beve. Sopra la sua vita, garantito. Oooh, quelle donne, consapevoli e generose: le loro (a volte) esauste abbondanze non oppongono resistenza al curioso e per nulla guardingo lavorio delle sue mani. Anzi: invitano e invitano.