Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

lunedì 2 gennaio 2017

Lo stupore della resistenza.

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A Mosul ti trovi di fronte a scene come questa. Un ragazzino handicappato che si dimena sul pavimento della stanza dove ha trovato rifugio, nella zona del quartiere di Intisar ora controllata dall'esercito iracheno.

Contro l'Isis si sta combattendo quella che definiremmo una "guerra giusta". L'Isis va sconfitto, non c'è dubbio, va distrutto. Ma questo auspicio non deve neutralizzare il nostro desiderio di capire: che cos'è, chi l'ha creato, chi lo sostiene, chi lo arma, chi lo dirige, a chi serve e a quale scopo?

La guerra, "giusta" o "sbagliata" che sia, è sempre la stessa: impossibile pensare che non faccia vittime fra i civili, che non li costringa alla fuga. È un dato di fatto. È un dato di fatto umano.

La guerra ci mette di fronte a quelli che siamo, ci costringe a misurare la nostra capacità di sopportazione, quella di vittime e quella di spettatori. La guerra ci mette una mano dentro la pancia e comincia a scavare. La guerra fa una paura terrificante, che pure riusciamo a superare, anche come testimoni, testardamente convinti che vada raccontata. Non cambia nulla, se la raccontiamo: andrà avanti comunque.

Eppure, in questo atto di trascurabile resistenza che il racconto incarna, c'è qualcosa che la guerra teme: teme di essere mostrata per quello che è. È un'enorme bugia, una menzogna spropositata che ci chiama, ci chiama, ci chiama. Ci chiama a credere che la carne, quando si rivolta, facendo a pezzi altra carne, che la carne semplicemente affamata di altra carne, di budella, di muscoli scoperti, di ossa bianche che luccicano al sole, di feci e di piscio sparsi sulla strada, finiti sui muri, di occhi che penzolano dai fili dell'elettricità, di pezzi di cranio spappolati sui parabrezza, di gambe a metà che hanno fatto una piroetta e sono cadute diritte, diritte come se fossero ancora intere, ci chiama a credere che non esista ormai più altro al di fuori di lei.

La guerra non ha nulla di disumano. È roba nostra. Ci piace, starci dentro.

Credo, sempre e ancora, che raccontarla così, senza trovare scuse, possa produrre, un giorno, lo stupore della resistenza. Non la resistenza del vogliamoci bene, che è un'altra menzogna senza fondo. Lo stupore della resistenza finalmente generata nei confronti di qualcosa che ci piace fare, per quanto ci terrifichi, e anzi che sappiamo fare. Lo stupore di chi mette gli occhi su un vuoto senza fine che inebria, e decide, però, di fare un passo indietro e voltarsi.

Una balla di dimensioni enormi, anche questa. Probabilmente.






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