Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 7 maggio 2016

La Storia scriverà.

© 2016 / weast productions

Nessuno potrà dire: non sapevo. Quando i libri di Storia scriveranno – diosantissimo se lo scriveranno – che nemmeno abbiamo chiuso gli occhi: siamo stati a guardare e basta. E che anzi ci ha presa una paura brutta, giustificabile diranno, e a ragione, eppure così sproporzionata alla sofisticatezza della società nella quale viviamo e dei mezzi (dei mezzi per fare tutto: togliere e ridare la vita) di cui disponiamo. Scriverà, la Storia, che abbiamo accettato di ascoltare quelli che urlano più forte, quelli con il fiato pesante, quel fiato che ti schiaccia come una cicca. Scriverà che abbiamo definito il loro agire “politica” e concluderà che abbiamo sbagliato. Aggiungendo, nel riflettere anche su sé stessa, che in quanto Storia non fa che ripetersi. Scriverà che abbiamo pronunciato parole di benvenuto nei confronti di discorsi sconsiderati e disumani, smarrendo così la nostra umanità. Che abbiamo piegato il nostro pensiero alla foga vuota di coloro ai quali questo stesso nostro pensiero era inviso, perché lo temevano, e come tale lo hanno combattuto. Pensare è un atto di libertà. Di resistenza. Non è nemmeno colpa loro: ciascuno decide dell'esperienza del mondo che desidera compiere. C'è chi ne è sprovvisto. Abbonda (fra parentesi) questa assenza di esperienza del mondo fra chi urla. Fra chi urla frasi monche.

La Storia scriverà che ce la siamo fatta sotto di fronte a qualche teppistello criminale che improvvisamente ha manifestato la sua codardia imbracciando un fucile o facendosi saltare in aria. La Storia scriverà che non abbiamo avuto il coraggio di guardarli in faccia, questi perdenti, che non abbiamo avuto il coraggio di andare fino in fondo, per capire da dove vengono e come si possono neutralizzare. Che non abbiamo avuto il coraggio di combatterli restando liberi, restando persone libere, non da prostrati. Combattere: va bene questa parola. La Storia scriverà che abbiamo preferito delegare la nostra resistenza a qualcuno che nemmeno conosciamo, anche se lui (o lei) conosce tutto di noi. E magari non conosce niente (o troppo poco) di quelli che deve combattere per davvero. La Storia scriverà che abbiamo smarrito il coraggio che deriva dal nostro restare umani. Il coraggio di combattere i criminali sgangherati e perduti e perdenti chiamati terroristi e il coraggio di conservare il senso che ci lega all'altro. Agli altri. Quelli, si capisce, che questo senso lo meritano.

La Storia scriverà che di fronte al bombardamento del campo profughi di Idlib (venerdì 6 maggio, di pomeriggio), nel nord della Siria, a due passi dal confine con la Turchia, siamo stati zitti. Sono stati zitti i politici che sempre urlano. E zitti i politici che diversamente si prendono (e sembra piacergli) l'etichetta di buonisti. Zitti come randagi con la coda fra le gambe. Zitti tutti. Trenta morti, fra i quali donne e bambini, con le prove provate delle immagini (quelle che vi – signore e signori politici, ma non soltanto, signore e signori e basta – piacciono così poco, perché parlano, le immagini parlano). Zitti. Non c'era nemmeno, in quel disperato campo profughi di disperati che non hanno chiesto nulla, zero, zero, zero, all'Europa, che non hanno chiesto che di restarsene lì, in quel posto maledetto e fetido, e lo scrivo perché so di cosa parlo, non c'era nemmeno un medico pediatra da trasformare in martire. E sul quale scrivere articoli densi di retorica, fate pure di melassa. Da metterci la firma in grassetto, sotto l'articolo, da costruirci sopra una terrificante e vergognosa autocelebrazione giornalistica. Non c'era nessuno da celebrare, fra quegli sconosciuti e povericristi. Nulla da celebrarsi.

Erano tutti sfigati. Una bel gruppo di sfigati. Finiti in cenere. Cosa vuoi che sia? La cenere. La Storia scriverà di questa cenere. E chiamerà tutti noi a risponderne. Cosa diremo a chi leggerà le pagine a venire? Che non c'eravamo? Che stavamo trascorrendo il ponte dell'Ascensione? Che stavamo guardando una partita di calcio? Seguendo una delle infinite migliaia di ore dedicate (concesse) allo sport in televisione? O le ore concesse (come si fa?) alle previsioni del tempo? O (come si può?) alle notizie sul traffico? Sempre aggiornate quelle. Minuto dopo minuto. Una macchina incolonnata dopo l'altra, su questa o su quell'altra autostrada.

E i morti, signore e signori? E. I. Morti? Non nel senso di morti. Nel senso di quello che i morti sarebbero potuti diventare nella vita. La loro, si capisce. Non la nostra. Che, per dirla come va detta, e va detta per una volta, se ne fotte. Chi sarebbero diventati, i bambini morti? Non soltanto a Idlib. Ad Aleppo, anche ad Aleppo, sotto le bombe, le bombe di tutti, del regime e degli altri, che sia chiaro. Chi sarebbero diventati? Pediatri? Magari pediatri. Avvocati? Magari avvocati. Meccanici. Magari meccanici? Madri? Magari madri. Qualcuno darà, un giorno, in televisione o alla radio, la conta precisa, minuto per minuto, dei morti ammazzati nelle guerre?

La resistenza contro chi ci ha portato la morte (la morte nelle città d'Europa) non deve passare attraverso la nostra deumanizzazione. Io penso questo, per lo zero che valgo. Io voglio combattere i mocciosi criminali e bastardi che hanno portato e vogliono portare la morte in Europa. So come farlo. So che va picchiato duro. A volte va picchiato duro. Nel farlo, tuttavia, non voglio – e mi batto affinché ciò non avvenga – smarrire il mio essere umano. Umano nei miei confronti. E nei confronti degli altri. Nei confronti della Storia. Del giudizio che essa darà: di me e di tutti noi. E, per prendere dei morti a caso, nei confronti dei morti di Siria. Si alzi uno, uno dei politici nato nel mio stesso paese, e dica: basta. Lo dica. Dica: basta. Basta. Basta morti. 

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