Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

mercoledì 23 marzo 2016

Quando nasce un libro.

© 2016 weast productions
Non c'è come quando nasce un libro. Un romanzo di verità (si può dire?) oppurre un romanzo giornalistico (anche questo: si può dire?) al quale hai consegnato quello in cui credi, ma anche le domande che ti fai e i dubbi che ti prendono. Di fronte agli altri. Alle guerre. E a te stesso. Il dolore che incontri quando vai in giro per la vita. E la bellezza senza fine della vita. Certo, anche questa. Forse soprattutto questa. Capace di andare contro l'odio e la violenza, l'ignoranza e la pigrizia delle scorciatoie. La forza di chi vuole vivere. L'ottimismo di chi è convinto che esista una vita migliore, da qualche parte. L'avventura della riflessione e del confronto con l'altro. L'amore per un mestiere, quello del reporter, che ti nutre e ti consuma, ti mangia e ti fa sperare di averne sette, di vite, che magari è vero: forse non ne hai sette, ma sicuro più di una, visto come sono andate le cose fino a oggi e visto che sono ancora qui a scriverne. 

Due scatti in tipografia. Dalla macchina, proprio oggi, è uscito il mio libro. Presto avrò il piacere di dire ai lettori di Faccia da Reporter quando sarà in libreria, quando e dove lo presenteremo. 

© 2016 weast productions

domenica 20 marzo 2016

Io vi chiedo.

(c) 2016 weast productions

Io vi chiedo se sapete che cos’è la guerra. Ve lo chiedo prima che decidiate di schierare l’esercito. 
E ancora prima. Prima che vi mettiate nella bocca la parola: soldati.

Ve lo chiedo per evitare che vi soffochi, questa parola, e vi tolga il respiro.

Anzi: io vi chiedo di schierare i soldati. Ve lo chiedo. Affinché vi proteggano dall’odio. Chiedo che unità armate fino ai denti circondino le vostre abitazioni e addirittura vi entrino in casa, e che sia persino incaricato un caporale di trascorrere la notte insieme a voi. Le notti insieme a voi. Con le dovute distanze, si capisce, ma che non siano metri. Che non siano metri. Centimetri, andrebbero bene, questi, capaci di trasformare i vostri incubi in sonni tranquilli.

Io vi chiedo se sapete che cos’è la guerra. E che cosa produce. E che cosa fa dell’essere umano.

Che cosa fa?

Io vi chiedo che ci sia lo spazio per ragionare, prima di mettere il colpo in canna o lo stivale sul confine.

Io vi chiedo se sapete che cos’è la guerra, prima di spruzzare paura e forse anche odio (che è il figlio della paura) ovunque, tutt’attorno.

Vi chiedo di pensare con la vostra testa. Perché gli eserciti schierati – oppure soltanto l’intenzione di schierarli – paralizzano il pensiero, lo schiacciano come una sigaretta sotto la suola di una scarpa.

Vi chiedo e vi richiedo di non nascondervi di fronte alla domanda: e se succedesse a noi, un giorno?

Vi chiedo di non mettere paura alla gente.

Vi chiedo di andarla a vedere una guerra. Vedere chi c’è, dentro a una guerra. 

Vi chiedo il coraggio. Il coraggio di partire, anche soltanto per una settimana, in guerra.

Per vedere che cosa produce: di brutto e di buono.

Vi chiedo di andarla a vivere (se desiderate, anche con me) una guerra.

Dopo – e soltanto dopo – riconoscerò il vostro diritto a produrre scenari di fronte ai quali non potrò, tuttavia, fare altro che scuotere il capo e sorridere. Di desolata tristezza.

Vi chiedo di guardarla, la guerra. Di starci. Dentro. Prima di parlarne. E prima di schierare l’esercito.

Vi chiedo di dare prova di coraggio, prima di avere paura.


lunedì 14 marzo 2016

Dice Rilke: die So-geliebte.

(c) 2016 weast productions

Das war der Seelen…. Era la strepitosa miniera delle anime.
Come vene, d’argento e mute,
avanzavano nel buio. Tra radici
sgorgava il sangue. Correva agli uomini.
Uguale al porfido nel buio: pesante.
Era l'unico rosso. Lì.

Dentro a quella strepitosa miniera delle anime. Che oggi è (di nuovo?) un’isola greca. A cento e rotti anni da questi versi. A quanti dal mito? Un’isola alla quale si aggrappano esseri umani. Oppure è un confine, metti Idomeni, fra Grecia e Macedonia, che in modo perfetto accetta il calco, forzato, magari, ditelo pure: forzato!, eppure tentabile, doverosamente sondabile, di un nuovo verso:

Und dieses einen Weges kamen sie.

E per quest’unico cammino essi avanzavano. 

Orfeo ed Euridice.

Leggere e rileggere. E leggere. Leggere. Rainer Maria Rilke. In tedesco. Lasciando che il destino di Orfeo + Euridice suggerisca un commento difficile eppure inevitabile alla realtà che oggi abbiamo davanti agli occhi. O forse è lei, la realtà, che ha noi davanti ai suoi occhi. Non è la stessa cosa. Conoscendo l’effetto che lo sguardo di Orfeo produrrà. Sull’amata. Sulla So-geliebte. La così amata. (Basta, in mancanza d’altro, Google per scoprirlo).

La Germania. Che sia lei? La così amata? Da me, per esempio. Die So-geliebte?

L’immagine che lei produce, oggi, dopo un voto complesso, costringendoci (e per fortuna e fra infinite contraddizioni, tuttavia discusse: fortunatamente discusse) a guardare più lontano. E in questo è grande, un grande paese, una grande nazione. Consapevole della propria fragilità. Di cui sa parlare.

Sembra, anche, di stare dentro una prova d’orchestra: tutti dicono tutto, anche quelli con meno orecchio. Quelli senza orecchio. Con meno orecchio di tutti. Senza orecchio di tutti. Si può dire? Quelli senza orecchio.

Si può dire. E si può anche dire:

Sie war in sich, wie Eine hoher Hoffnung,
und dachte nicht des Mannes, der voranging,
und nicht des Weges, der ins Leben aufstieg.

Era in sé, come in attesa, infine,
senza pensieri per l’uomo che la precedeva,
senza badare al cammino che portava alla vita.

Euridice. Che subirà lo sguardo di Orfeo. E ne avrà condanna. 

Sie war schon Wurzel.

Radice, ormai. Radice si era fatta.

Mentre i suoi passi percorrevano, a ritroso, per sempre a ritroso, il cammino fino a lì compiuto. Per amore, si badi. Per amore:  

Unsicher, sanft, und ohne Ungeduld.

Incerta, docile e senza impazienza.

Quante donne ho visto scendere dai gommoni, sedersi con i vestiti intrisi d’acqua sulla spiaggia di un’isola greca, sperare che il cammino non le avrebbe portate indietro. Mai più. Sperare che avrebbero seguito i loro uomini (che noi tanto vituperiamo) anche per amore, oh sì, anche per amore. 

Per descriverle, queste donne, avrei potuto affidarmi alla memoria. Ho preferito andare a rovistare dentro le scatole dei libri, nel buio (il buio) e nella polvere (nonostante la resistenza, a lei opposta). Ho preferito la lettera. E trovare Rilke. Euridice:

Unsicher, sanft und ohne Ungeduld.

Incerta, docile e senza impazienza.  

Valgono, queste parole, vale questo verso stupendo, doloroso e definitivo per tutte le donne che ho visto sbarcare in Grecia. Per tutte. 


(Rainer Maria Rilke, Neue Gedichte, 1907, trad. gg)

venerdì 11 marzo 2016

Non vedono l'ora.

(c) 2016 weast productions / gianluca grossi

Lunedì andrà in macchina. Ed è una sensazione straordinaria. Il mio libro, che avevo annunciato ai lettori di Faccia da reporter, uscirà presto nelle librerie. La data la tengo riservata, ancora per un po', non fosse altro che per il piacere dell'attesa, che è mia, e mi auguro, a questo punto, anche vostra. Quante vite sono finite dentro questo libro. Che è un... Pazienza, pazienza. Mordo il freno. In realtà sono loro, i personaggi che abitano le pagine, a spingere. Non vedono l'ora di essere anche vostri, dopo essere stati soltanto miei, così a lungo.  

Il senso del taccuino.

© 2016 weast productions
Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Se ci passate di sabato".

Continua così il viaggio del Taccuino dentro la guerra. Soprattutto dentro la vita di chi la combatte o, come in questo caso, l'ha combattuta (in Libano). Otto amici ne sono venuti fuori vivi, ma a pezzi. Ogni sabato si ritrovano e ridono. Di quello che è rimasto dei loro corpi, e non soltanto. Qui di seguito il (ma sì, diciamo pure: consueto) estratto:

E poi tutti lì ad aspettare. Che gli cadesse la dentiera. «A-a-a co-co-co contare i-i-i se-se secondi». A contare i secondi. Come diceva uno. Uno di loro, a cui toccava il compito (non ufficiale) di commentare. Meno tre, meno due, meno uno. Tac! Per un istante non volò una mosca. Poi: giù a ridere. La dentiera gli era uscita d'un solo colpo, come se le gengive si fossero ritirate all'improvviso o non avessero saputo resistere a uno spasmo che (forse) aveva preso origine dai muscoli della mandibola. Ammesso che ne avesse ancora, di muscoli. Gli cadde come succede nei cartoni animati. Una splendida fila di denti dotata di vita propria. Un affare, per quello che erano costati. E tutti sapevano, ormai, che erano costati duecentoventi dollari. Duecentoventi? Sì. La dentiera era lì da guardare. Ormai sul tavolo. L'arcata superiore unita (va detto) con non comune maestria di odontotecnico all'arcata inferiore. Succedeva che riuscisse a fermarne la traiettoria alzando il braccio destro. Che era anche l'unico arto superiore rimasto. Essendo, però, di legno e di metallo, con l'aggiunta di qualche laccio di cuoio che lo teneva insieme, la sua reazione rifiutava comprensibilmente l'aggettivo “fulminea”. Meritava, piuttosto, quello di “miracolosa”.