Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

domenica 27 settembre 2015

La tessera stampa. O la carta Cumulus.

(c) 2015 weast productions
Quando sbarcano in Grecia, hanno l'espressione di questa ragazza afgana. Siccome la Germania, la Svezia, e la Svizzera pure, ecc. se le devono guadagnare, passano per i Balcani. Dove succede quello che ormai sappiamo. È durante il viaggio attraverso i Balcani che queste persone vengono filmate e fotografate: in situazioni che si assomigliano tutte. Gente che dorme per terra. Un'immagine che precipita nuovamente questi esseri umani nella assenza di umanità che prende forma nella percezione che ne abbiamo, anche involontariamente: nessuna predica, è un meccanismo. Un meccanismo che si sta impossessando anche delle immagini che ci mostrano gli sbarchi, quindi ancora prima che queste persone si mettano a dormire per terra.

Quale essere umano dorme per terra? Gli animali, dormono per terra. Quale essere umano si mette a piangere, alza le mani al cielo urlando, cede all'eccesso dei sentimenti una volta toccata la terra ferma? Gli esaltati, si capisce. I-meno-umani-di-noi. Funzioniamo così.

La disumanizzazione: è un'esperienza attraverso la quale sono passati, subendola, si capisce, non innescandola, tutti quanti questi individui, nel loro paese, dall'Afghanistan alla Siria. In Occidente riusciamo ad accettare (senza scendere per strada, per protestare) che esseri umani possano vivere nella loro situazione soltanto pensandoli diversi da noi: vale a direi non umani, privati di umanità. E soltanto così, pensando che si consumino dove non esistono esseri umani ma bestie, accettiamo che ci siano ancora guerre. E miserie. Che sono sempre collegate alle guerre. Accettiamo, infine, che alle guerre si possa fare un processo, con tanto di riflettori puntati soprattutto sugli officianti protagonisti, sui loro comunicati stampa, sul loro essere-dalla-parte-giusta, sulle loro dirette televisive e televisivamente vuote, in luogo di fermarle prima, queste guerre; accettiamo le guerre perché ci illudiamo che in conclusione i buoni chiederanno conto ai cattivi delle loro azioni.

Pubblico questa foto, che mostra una ragazza afgana appena sbarcata su un'isola greca, per mostrare l'energia di questi esseri umani: la voglia che hanno di costruirsi una vita, di farsi una nuova vita. Di lavorare. Quante persone, qui da noi, il lunedì mattina, vanno al lavoro detestando il lavoro e se stesse per accettare di farlo? Detestando colleghi, capi ufficio, i capi e supercapi e i capi dei supercapi?

Credo che raccontare il mondo, oggi, equivalga a sottrarre queste persone alla minaccia della disumanizzazione (alla disumanizzazione e basta) imposta sopra di loro dal terrificante meccanismo dell'omologazione del racconto. Tutti, insomma, raccontano la stessa situazione, al punto tale che questa situazione diventa insignificante per rapporto al significato di una situazione più originale: la fuga; lo sbarco; la gioia e l'energia di vita ricostruita e rinnovata che lo sbarco reca con sé e traduce per noi. Dovrebbe tradurre.

E invece no: è sempre più supermercato dei sentimenti e delle situazioni. Un rifugiato che sbarca in Grecia serve a strappare due lacrime; uno che dorme sul confine fra Serbia e Ungheria riuscirà, se va bene, a garantirsi dieci secondi di attenzione; cento tedeschi che applaudono alla stazione di Monaco mille rifugiati in arrivo attirano l'attenzione sui tedeschi, meno sui rifugiati. E se l'attirano su questi ultimi, è per forza perché sono dei povericristi.

Non sono dei povericristi. Sono esseri umani pieni di voglia di ricominciare a vivere. A dirlo, oggi, uno si sente un pirla.

E tuttavia: se noi giornalisti non riusciamo a tradurre l'energia vitale di queste persone, se accettiamo di ignorare il loro non-essere-dei-poveri-cristi, se li condanniamo ad essere dei povericristi perché è molto più facile raccontarli così, dovremmo consegnare la tessera stampa e chiedere, in cambio, la carta Cumulus.


venerdì 25 settembre 2015

Il senso del taccuino.


Domani, sabato, nel Senso del taccuino sulla Regione: "Due che si guardano". Qui di seguito il (consueto) estratto:

Un campo. Non dritto: ondulato. Come il mare. Se c'è da fare un paragone, è questo il più preciso. E infatti dice: “sembra il mare”. Con un mezzo sorriso, che le viene dagli occhi, più che farsi sulla bocca. Le labbra sono secche. Lui la guarda e pensa: “ruvide”. E pensa, anche: “è bella”. O forse è soltanto perché si trovano lì, in mezzo a un campo chissà dove di preciso, perché lei porta uno zaino sulle spalle e nella mano destra stringe un sacchetto di plastica con dentro un paio di scarpe e qualche vestito, perché ha la faccia stanca, perché viaggia da sola, perché porta una camicia blu e il blu sembra essere il colore perfetto per la sua pelle, perché non si lava da giorni e non se ne vergogna, perché negli occhi c'è dentro dolore e forza, perché sembra fidarsi di lui, perché è solo anch'egli, forse perché tutto questo ha un senso, lei che lo guarda e lui che la guarda, altrimenti non avrebbe senso nulla nella vita, perché lei sa cos'è la guerra e non ha paura, lo sa, glielo leggi in faccia che lo sa, che l'ha vista, che lo sa.


© 2015 weast productions

venerdì 18 settembre 2015

Un essere umano. Non un pezzente.

© 2015 weast productions

Sul cellulare arriva un messaggio, due minuti fa. Dalla Germania. Un ragazzo curdo di Siria che avevo incontrato dapprima in Grecia e poi di nuovo in Serbia. È arrivato, non lontano da Francoforte, in un campo di accoglienza. Si fa vivo: significa che si è fidato del giornalista che faceva domande e scattava fotografie. Dice che forse fra qualche giorno lo sposteranno di nuovo. In un campo diverso. “Campo” è una parola difficile in Germania. Lui, tuttavia, è contento. In Siria faceva l'ingegnere. Non il pezzente. Faceva l'ingegnere.

Stanno chiudendo tutto. Ungheria: chiusa. Croazia: quasi chiusa. Slovenia: chiusa. Gli altri paesi? Chiusi, anch'essi?

Si constata una tendenza, anche in Europa centrale, anche in Svizzera: quella che esprime un giudizio confessionale su chi è più profugo di un altro. È pericoloso oltre che ingiusto giudicare i profughi sulla base della loro religione. Lo si sta, tuttavia, facendo con le campagne di aiuto lanciate e riservate a questi piuttosto che a quelli, ai cristiani piuttosto che agli altri, musulmani, yazidi, sciiti afgani, sunniti iracheni, ecc.; e lo si sta facendo parimenti con criteri di giudizio di carattere confessionale molto spesso applicati nella selezione destinata a decidere chi entra e chi invece se ne sta fuori. È il modo più sempliciotto di cadere nella trappola preparata da altri, quelli che ti frustano mille volte per la religione, per non dire peggio. Vogliamo, per davvero, finirci in questa trappola?

Quello confessionale è un criterio (esplosivo) che – parlando della Siria, che produce il numero maggiore di profughi, di richiedenti l'asilo - in quel Paese non è mai esistito prima della mattanza di cui siamo (ma lo siamo davvero?) testimoni. Se viene applicato ora, dall'Occidente, si innesca una miccia artificiale: costringiamo chi ci chiede aiuto a professare una fede, nel momento stesso in cui temiamo, di queste persone, proprio la fede. 

E inoltre (e per dirla in modo diverso): chi fa questo si rende complice delle cieche strategie di coloro (serve fare i nomi?) che hanno trasformato la Siria (senza curarsene: anzi, auspicando questo esito) in un teatro di guerra per procura. È un atteggiamento da denunciare e combattere. Se acconsentiamo a indirizzare gli aiuti secondo criteri e pregiudizi confessionali, un giorno la Storia (e non soltanto la Storia) ci chiederà conto di questo. Ci chiederà perché lo abbiamo fatto.

Il ragazzo ingegnere curdo siriano mi ha promesso che mi terrà al corrente dei suoi spostamenti futuri in Germania. Aggiornerò anche il lettori del Blog. Per raccontare la storia di un essere umano. Non di un pezzente. E nemmeno di un musulmano, oppure di un cristiano o di chissà cos'altro. (Segue).

giovedì 17 settembre 2015

Parole a perdere.

(c) 2015 weast productions
Se uno dice: "non sappiamo nulla di loro", che figura ci fa? Siamo a questo punto. Dico: non sappiamo nulla di loro. Della loro vita. Da dove provengono. Cosa hanno visto? Sopportato? Subito? Quella infinità di gente in cammino. Tutta quella gente che pensavamo non sarebbe mai venuta a chiederci il conto di nulla. Siamo messi che sembra ovatta e retorica questo chiedere e volere capire. Ci stanno convincendo - e qualcuno è già convinto - che le notizie sul traffico facciano parte davvero della nostra vita. E che della nostra vita facciano parte anche le notizie del tempo che farà domani. Le firmano, con nome e cognome. Così come firmano le veline e le minestre riscaldate su come va il mondo. E addirittura gli appelli ad aiutare questi esseri umani: lo fanno come se parlassero di insalata. La vita, quella vera, dov'è? Con quale linguaggio la vogliamo raccontare? Lo si sta facendo con gli scarti. Gli scarti delle parole e delle frasi: gli scarti di un linguaggio che ha smarrito il peso. Vale, per quello in cui credo e per il poco che capisco, per tutto il mondo. Raccontato con parole che non dicono nulla, pigramente sottratte alla discarica. Parole a perdere.

(c) 2015 weast productions
Per quello zero che vale, dico che sono un profugo. Sono un rifugiato. Sto dalla loro parte, con gli errori che compiono, i trucchi che si inventano, le prediche che devono sopportare, i rimproveri, i rimproveri, i rimproveri, e con l'illusione che disperatamente nutrono in una vita davvero migliore. Ascolto le parole libertà e dignità e giustizia, che gli vengono fuori mentre camminano. Credono, disperatamente, che le troveranno in questa parte di mondo. Libertà, dignità e giustizia. E in questo crederci, fino in fondo, possono risvegliare in noi perlomeno la nostalgia del senso della ricerca. Della ricerca. Che è un modo per lasciare un segno nella vita. Per tutto questo, e soprattutto aldilà delle balle dei buonisti (che tanto buoni non sono) e delle minacce dei falchi (che vedono a un centimetro), io dico e ridico che sono un profugo. Sono uno di loro. A metà strada. Anzi proprio in mezzo. 

venerdì 11 settembre 2015

Il senso del taccuino.

© 2015 weast productions 
Torna, domani, sabato 12 settembre, il Senso del taccuino sulla Regione dopo la pausa estiva. Il titolo, questa volta, per ripartire, è: Il coraggio è contagioso. Qui di seguito il (solito) estratto:

Dice Frèèèèènkfurt con la sigaretta infilata fra le labbra. Storta in un angolo della bocca. Uno si chiede come fa a non cadergli. Adesso gli cade. I am goooing to Frèèèèènkfurt. Suona tutto così strascicato e masticato, nasale che uno potrebbe anche scambiarlo davvero per un turista americano incapace di parlare a bassa voce e di passare inosservato, finito per caso in un villaggio greco con un sacco in spalla, sandali ai piedi e un paio di grosse scarpe legate all'esterno del sacco, due scarpe del 46 come minimo, ha dei piedi enormi, gli americani solitamente hanno dei piedoni. Se lui è americano, gli altri chi sono? Europei? Mai visti, però, europei sdraiarsi per terra, nemmeno dopo una lunga camminata, sdraiarsi addirittura uno sopra l'altro, se non proprio sopra, poco ci manca, guarda quello che ha le gambe allungate sulla schiena del suo vicino... Mai visti nemmeno degli europei con tanti bambini. Quanti saranno? E le donne, anche loro, sdraiate. Immobili. No, europee quelle non sono. Dormono? O sono morti, tutti quanti morti? Toccarne uno, per vedere se si muove. Frèèèèènkfurt! La scena è sua. La tiene da professionista. La piazza del piccolo villaggio di Madamados, sull'isola di Lesbo, è immersa in quello che, se non ci fosse lui, sarebbe un silenzio perfetto. Ci starebbe anche “perfetta immobilità” come descrizione. Ora si spiega: che viene da Damasco, Siria, e che in 56 anni di vita non gli era mai passato per la testa che un giorno si sarebbe trovato qui. Qui e messo così. Sbarcato, ore prima, da un gommone. A Damasco aveva due lavori: giornalista sportivo e attore comico. Lo conoscono tutti. Tiene su di giri la decina di siriani che viaggiano insieme a lui. E tutti garantiscono che in Siria persino le pietre, se potessero, farebbero il suo nome.

sabato 5 settembre 2015

Io sono uno di loro.

(c) 2015 weast productions
Uno: che fra un passo è in Serbia, e un passo prima era in Macedonia. Uno che alza e fa vedere al fotoreporter un sacchetto, una busta della Lidl. Che è il supermercato tedesco che, stando a quanto ho visto, a partire perlomeno dalla Grecia ci guadagna con la fame dei richiedenti rifugio, con gli esseri umani che hanno fame e camminano e fuggono.

Ieri mattina, tornando da un viaggio, ho trovato un pieghevole nella cassetta delle lettere. Un pezzo di carta strappato a un albero. Un pezzo di carta che dice "Ticinesi siamo con voi". Quattro pagine photoshoppate di gente che invade il Ticino (le scritte sono in italiano), disperati che corrono o che cercano di varcare una distesa di filo spinato, di quello che in gergo si definisce Nato Barber Wire: filo spinato che ti taglia a pezzi se ci finisci sopra. Una terrificante bugia. Una odiosa manipolazione della realtà.

Il pieghevole è firmato dall'"Azione per una Svizzera neutrale e indipendente". Io sono ticinese, anche se vivo in albergo, in giro per il mondo. Con me, signore  e signori, non state. Non con me, seppure siete finiti, senza invito, nella mia buca delle lettere.

Va bene qualsiasi discussione, qualsiasi. Non va bene l'ignoranza. E non va bene l'odio. La storia è una cosa lunga, che va avanti e ci supera.

Io sto con i rifugiati in fuga dalla guerra. Io sono uno di loro. Fino in fondo. Mi sento uno di loro. Senza casa. Senza una terra davvero ferma sotto i piedi. So che cosa significa, che cosa significa essere in giro. Che cosa significa volersi fare una doccia quando invece una doccia non c'è.

La storia giudica gli atti degli esseri umani: la nostra generosità oppure (e parimenti) la nostra indifferenza.

Io sto con gli esseri umani in cammino. E a chi mi dice che sta con me, con me quale ticinese, gli dico: chi sei e chi ti vuole?

Io sto con chi fugge dalla guerra. Perché un giorno potrebbe toccare a noi. E perché io sono uno di loro. Loro sono come noi.


Incollati a una sedia.

Volevo non scrivere. Non di questo. Attendere e lasciare che tutto finisse dentro quello che sto preparando ma non per il Blog. Ora devo farlo. Scriverò, qui di seguito, di due argomenti: il primo è semantico, riguarda l'utilizzo delle parole e il significato che esse hanno sulla realtà e su di noi, sul nostro modo di registrarla. Il secondo riguarda il bambino siriano senza vita fotografato su una spiaggia turca.

Primo argomento. Accendo raramente la radio, a casa (quando sono in Ticino) o in macchina. Questa mattina l'ho accesa (in macchina). In un notiziario RSI (ma non sono i soli, i più blasonati tuttavia) si parlava degli esseri umani in fuga (la maggior parte) dalla guerra e fermi a Budapest, in Ungheria. La voce diceva (vado a memoria, ma ho una buona memoria) che si erano messi in cammino verso l'Austria dopo che altri “avevano preso d'assalto alcuni treni”. Prendere d'assalto: la scelta di questa espressione è terrificante e pericolosa, irresponsabile. Nessun essere umano sulla via dei Balcani ha mai “preso d'assalto” un treno, non in Macedonia, non in Ungheria, da nessuna parte. Nessuno ha mai imbracciato un'arma o un bastone o altro per farlo. Nessuno si è mai comportato, nemmeno in senso figurato, in questo modo. Tutti hanno cercato, disperatamente, e cercano, disperatamente, di trovare un posto, per primi, su un treno. Producendo scene di sconvolgente agitazione e anche di violenza umana: esseri spinti dall'istinto di sopravvivenza.

Utilizzare, riferita ai rifugiati in cammino, a chi cerca rifugio, l'espressione “prendere d'assalto” equivale a veicolare, al pubblico, una immagine minacciosa di questi esseri umani.

L'”informazione” sta manifestando il proprio fallimento nel raccontare questo storico flusso migratorio: non sa raccontarlo. Non sa trovare le parole giuste, corrette. Si aggrappa a formule fatte, precostituite. E pericolose: per l'effetto che producono, anche inconsapevolmente, su chi le ascolta. La fretta e l'ignoranza.

Utilizzare questa espressione riferita ai rifugiati è, anche, un modo per significare la “nostra” ostilità alla loro richiesta di accoglienza.

Secondo argomento. La fotografia del bambino siriano senza vita su una spiaggia turca. L'”informazione” non sa come comportarsi di fronte alle immagini. Ho spiegato, in un'intervista, cosa penso di quelle testate (nazionali e internazionali) che hanno scelto di pubblicarla accompagnandola con editoriali che chiedono scusa ai lettori per la decisione presa. Come se i lettori si aspettassero qualcosa di diverso, dai mezzi di informazione, che non la descrizione della realtà. Il racconto di come va il mondo.

Aggiungo, qui, un'ulteriore riflessione: la fotografia del bambino siriano fa (finalmente) emergere la crisi del “sistema informazione” occidentale. Che si è ormai addormentata, schiava dei contabili (che impongono tagli sul racconto del mondo) e di chi la realtà non sa vederla se non attraverso i luoghi comuni (per poi, attraverso questi stessi luoghi comuni, raccontarla al pubblico dei lettori, ascoltatori e spettatori). C'è un sacco di gente che non si schioda dalla sedia di una redazione e che si è messa a ragionare sul senso o meno della pubblicazione di questa immagine. La democrazia è di manica larga e di bocca buona.

Eppure, da reporter che ha trascorso un buon pezzo di vita sul terreno (pagando in tutti i sensi questa scelta individuale e dettata da nessuno se non da me stesso: la realtà ti corrode, ti consuma, dentro), scrivo che: il significato di questo mestiere è mostrare e raccontare il mondo. C'è chi fotografa attrici e calciatori su una spiaggia vippaiola, c'è chi dedica paginate e ore di diretta radio e TV a una partita di calcio, alle accelerazioni di un atleta dopato, alle sbandate inquinanti di un'automobile in corsa, e c'è chi fotografa i rifugiati in viaggio verso la speranza di una vita normale, come quella che viviamo noi, dalle nostre parti. Appartengo alla seconda categoria. A Ramallah, Gerusalemme, Gaza, Bagdad, Tikrit, Kabul, in Georgia, a Kiev, a Beirut, a Tiro, altrove e altrove e chissà dove ancora ho filmato e fotografato corpi senza vita: uomini, donne, bambini. Ho raccontato, nella mia vita, e ancora lo faccio, guerre e conflitti: il comportamento dell'essere umano. In ogni fotogramma filmato, in ogni scatto ho preso e prendo in consegna la vita delle persone ritratte, vive o morte: me ne faccio garante. Prometto a loro che mi batterò, fino all'ultimo, affinché la dignità della loro vita, di quella che continua sotto le bombe o di quella che una bomba ha spezzato o un pezzo di mare ha spezzato, diventi parte della vita degli individui che guarderanno queste immagini. Metto la mia vita e il prezzo che ho pagato quale garanzia del rispetto portato alle vite filmate e fotografate e raccontate.

C'è questa promessa, in ogni immagine che realizzo. Una promessa che, ogni volta che la pronunci, ti mangia un pezzo di vita. C'è un prezzo da pagare, quando scegli di fare il mestiere del reporter.

Ecco perché contesto, nel modo più fermo, le riflessioni – quelle più elaborate e quelle più sempliciotte – espresse sulla stampa internazionale, ma anche su quella locale, ticinese (che mi è capitato, essendo in Ticino, in questo momento, di leggere). C'è, nello sforzo argomentativo di chi sostiene che l'immagine del bambino siriano non andava pubblicata, un trucco malriuscito e malcelato: il trucco della censura accomodatrice.

Chi fa il reporter, dedicando a questa professione e al significato che ha tutta la propria esistenza, non censura: vuole che si mostri tutto. Per fare vedere e capire, a chi si trova lontano e ha altre cose da fare, un'altra vita alla quale badare, la vita (e la morte) degli altri. È questo il senso del giornalismo: del giornalismo vissuto sul terreno, non di quello che ha le chiappe inchiodate a una sedia.

Se, dalle testate locali, lasciamo che si dica che la realtà non va raccontata tutta, che il racconto della realtà ha dei limiti, accettiamo che l'informazione diventi uno strapotere libero di decidere su che cosa dire e che cosa tacere, su come raccontare il mondo oppure non raccontarlo. Oggi non lo si racconta più.

Mi auguro, nel modo più forte, che in Ticino si formi una generazione di reporter da terreno, di giovani che hanno voglia di sacrificare la propria vita per questo mestiere (molti mi scrivono, manifestando questo desiderio, ma io sono un solitario, uno che va in giro da solo, fatico a prendermi cura di loro, ci sarebbe, magari, qualcuno in grado di dare, a queste aspirazioni e a questi talenti, lo sbocco che meritano, il lavoro che meritano, ci sarebbe qualcuno di interessato?) Auguro a tutti di restare vivi, ma a tutti dico che c'è un prezzo. Il prezzo che paghiamo, sul terreno, con la nostra vita, con ciò che alla nostra vita succede, con i malanni che ci prendiamo, con la vita consumata che ci portiamo dietro è la dichiarazione di onestà che pronunciamo di fronte ai vivi e di fronte ai morti che fotografiamo e filmiamo e consegnamo a un taccuino. Anche di fronte ai rifugiati in cammino e a chi, invece, non ce l'ha fatta.

Nel mio viaggio dalla Grecia alla Svezia ho incontrato migliaia di persone e ho parlato con decine e decine di loro. Molte mi hanno chiesto perché le fotografassi e che cosa la mia immagine avrebbe cambiato nella loro esistenza. Ogni volta ho spento la videocamera o la macchina fotografica e mi sono messo a spiegare loro il senso del mio mestiere. E' a loro che dobbiamo una spiegazione. Non hai lettori o agli spettatori per avere scelto di pubblicare una fotografia che mostra la realtà. Che mostra che cosa succede agli esseri umani in fuga dalla guerra in questo medesimo istante. I lettori, il pubblico capiscono: commentano, partecipano, si esprimono. Non producono editoriali: frasi semplici, soltanto queste. Alle redazioni piacciono poco, le frasi semplici. Eppure bastano: testimoniano ai vivi in cammino e ai morti la consapevolezza e il senso della dignità che non hanno mai smarrito.

Questo e non un altro è il lavoro del reporter. Il resto sono chiappe incollate a una sedia.

Qui di seguito, uno scatto che ritrae Fatma, una bambina irachena di 7 anni nata con una grave malformazione del cervello a causa delle bombe alleate sganciate sulla sua città dall'inizio della “guerra di democratizzazione” nel 2003 (spiegazione fornita dalla famiglia). Ne ho già parlato, sul Blog e in alcuni articoli. Il giornalista e una sua collega, subito dopo questo scatto, si sono adoperati affinché Fatma e la sua famiglia potessero salire su un treno, a Gevgelija, in Macedonia, in modo umano. È successo, in modo più o meno umano, grazie anche all'aiuto di un interprete dell'ONU (UNHCR). Fatma non ha preso d'assalto un treno. E nessun altro, in verità. Volevano, tutti quanti, soltanto salirci. Erano in migliaia e il treno aveva due vagoni.

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