Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

lunedì 30 marzo 2015

Un circo di tromboni.

Questa non è una predica. È una constatazione. È un modo per dire come va il mondo. Che va come è sempre andato. Gli sfigati le prendono, gli altri molto meno, anzi: le danno. Botte da orbi. Soltanto che in guerra si parla di bombe (e barili esplosivi) + cecchini + raffiche ad alzo zero su donne e bambini e vecchi che sono quelli che corrono meno e, per dirla fino in fondo, corrono che più da fessi non si può: dei veri bersagli che è una pacchia. Ma non ve l'hanno insegnato a scuola come si corre sotto il tiro di un cecchino? No? Aggiornate, allora, il vostro curriculum. Il mondo va così. Immaginare che qualcuno lo abbia inventato (creato) mettendoci sette giorni equivale ad accettare l'idea (il datodifatto) che francamente – e senza rancore - ci è andato un po' di fretta. Una settimana in più non avrebbe fatto male a nessuno. È tutta una questione di tempo.

In merito, la dimostrazione più seria e autorevole giunge da un articolo della NZZ del 20 marzo 2015 (per fortuna scritto ormai quasi non più sotto il segno dei Pesci: io sono dei Pesci e faccio trincea per difendere i miei fratelli e le mie sorelle di zodiaco). L'articolo lo trovate cliccando QUI. Perché ne parlo? Perché è un elegante mea culpa della stampa occidentale. Lo spunto per questo articolo è un'esposizione di fotografie accessibili dal 10 al 21 marzo (oltre no: iniziava la primavera, vuoi mettere, c'è da tirar fuori i sandali, seccature zero) presso il Palazzo delle Nazioni Unite a New York. Fotografie scattate e trafugate da un fotografo forense siriano che per 13 anni ha fedelmente documentato ogni tipo di cadavere per il suo governo ("suo" contiene, a posteriori, il sapore di vittima indiretta relativamente al fotografo). A partire dal 2011, in particolare, incluso ogni tipo di tortura e di mutilazione subite dai corpi di chi con il governo/regime non andava d'accordo. Bastava una frase sprayata su un muro. L'esposizione è una botta pazzesca. Pensata – cito da un articolo del Guardian – per sensibilizzare i collaboratori delle Nazioni Unite sui crimini commessi da chi, oggi, risalita la china, è a due passi dall'essere riconsiderato un interlocurtore credibile e commestibile per sistemare la Siria. Se non stessi scrivendo queste righe, sarei già fuori a fare jogging per calmarmi. In passato ho segnalato alcuni link di studiosi che mettono in relazione l'ascesa del radicalismo estremo in Siria con una strategia dei servizi di intelligence del regime: non mi ripeto e ammetto, nel contempo, l'inconfutabilie possibilità che la situazione sia sfuggita di mano a tutti. Il caos è il clima all'interno del quale si sviluppano le guerre per mandato, le guerre degli altri. Quelle che creano mostri perché i mostri, essendo al di fuori dell'immaginabile, non recano con sé un copyright. Sono figli di tutti, ma soprattutto di nessuno.  

L'articolo della NZZ, che lascio alla vostra paziente lettura quando avrete il tempo e il desiderio di intraprenderla, è però interessante per questo: ammette, senza dirlo (ma in fondo non glielo chiedeva nessuno di dirlo esplicitamente) che la stampa occidentale si è sbagliata quando, stufa di tutti quegli arabi che si mettevano a protestare, si è ritrovata fra le mani la Siria e ogni volta che da questo Paese giungeva un'immagine ne metteva in discussione l'attendibilità. Si trattava di immagini che mostravano i manifestanti sotto una doccia di pallottole sparate dai soldati del governo. Ecco il punto al quale volevo arrivare. Questa insostenibile presunzione cartaceo-elettronica ha contaminato anche il lavoro di chi, dal terreno, portava a casa (nelle redazioni, sui Blog, ecc.) materiali che chiedevano, perlomeno, di considerare il ruolo del regime di Damasco nella violenza che si stava scatenando. È successo raramente che qualcuno ci prestasse attenzione. C'è voluta una esposizione fotografica fatta uscire in segreto dalla Siria per spiegare ai collaboratori delle Nazioni Unite (e al mondo, in questo senso), che erano vere le storie che raccontavano persone come quest'uomo, ritratto in fotografia, appena liberato (in cambio di qualche militare precedentemente fatto progioniero) dal regime di Damasco. Torturato e liberato.

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Che cosa ci insegna questa storia, che forse l'ho fatta anche troppo lunga? Che la verità è tale quando i poteri decidono di dichiararla per vera. Le Nazioni Unite sono un potere fra i poteri, riuniscono i potenti e ne incarnano le intollerabili contraddizioni, le menzogne, il tanfo. Attendevano il fotografo ufficiale dell'obitorio di Damasco, le Nazioni Unite, per dire ai loro collaboratori e al mondo che nelle carceri di Assad si pratica la tortura. È l'ufficializzazione della realtà, indifferente alla verità. La verità l'hanno raccontata i giornalisti, molto prima dell'esposizione presso le Nazioni Unite a New York. Quelli che ci hanno lasciato la pelle, in Siria, e quelli che, fortuna loro, sono tornati a casa. Interi abbastanza per definire (con il proprio lavoro) questo organismo, che li ignora e ha sempre ignorati, un circo di tromboni. 

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