Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

lunedì 30 marzo 2015

Basta saperlo.

© 2015 weast productions

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È la faccia che facciamo: davanti al mondo. Conta quella. La faccia che ci viene di fare davanti a un paio di Converse buttate lì, dentro un non discutibile disordine che potremmo anche chiamare creativo, oppure davanti a un'istantanea di gente che attende e di una ragazza che passa sapendo (si spera) dove va. La vita di ogni giorno richiede lo scavo per andarci a fondo. Le fotografie come quella riportata nel post qui di seguito (l'ex prigioniero siriano torturato) sono giunte già di per sé (da sole: nel proprio essere scatti e basta, persino ignorati: non serve loro lo sguardo, non più, ormai) non in fondo allo scavo, ma avanti (profonde) abbastanza: abbastanza per mettere noi di fronte all'alternativa se continuare (con il rischio di non conoscere quando ci potremo fermare, semmai potremo) oppure lasciare stare, tornare, seppure a fatica e recando tracce, in superficie. Questi due scatti, invece, l'attesa e i scarp da tennis, ci lasciano liberi di costruire un racconto di cui restiamo gli autori certificati, disposti, in questa veste, anche a raccontare/ci un sacco di balle e, soprattutto, a crederci. Anche a quelle. Soprattutto a quelle. Che va di un bene, ma basta saperlo.   

Un circo di tromboni.

Questa non è una predica. È una constatazione. È un modo per dire come va il mondo. Che va come è sempre andato. Gli sfigati le prendono, gli altri molto meno, anzi: le danno. Botte da orbi. Soltanto che in guerra si parla di bombe (e barili esplosivi) + cecchini + raffiche ad alzo zero su donne e bambini e vecchi che sono quelli che corrono meno e, per dirla fino in fondo, corrono che più da fessi non si può: dei veri bersagli che è una pacchia. Ma non ve l'hanno insegnato a scuola come si corre sotto il tiro di un cecchino? No? Aggiornate, allora, il vostro curriculum. Il mondo va così. Immaginare che qualcuno lo abbia inventato (creato) mettendoci sette giorni equivale ad accettare l'idea (il datodifatto) che francamente – e senza rancore - ci è andato un po' di fretta. Una settimana in più non avrebbe fatto male a nessuno. È tutta una questione di tempo.

In merito, la dimostrazione più seria e autorevole giunge da un articolo della NZZ del 20 marzo 2015 (per fortuna scritto ormai quasi non più sotto il segno dei Pesci: io sono dei Pesci e faccio trincea per difendere i miei fratelli e le mie sorelle di zodiaco). L'articolo lo trovate cliccando QUI. Perché ne parlo? Perché è un elegante mea culpa della stampa occidentale. Lo spunto per questo articolo è un'esposizione di fotografie accessibili dal 10 al 21 marzo (oltre no: iniziava la primavera, vuoi mettere, c'è da tirar fuori i sandali, seccature zero) presso il Palazzo delle Nazioni Unite a New York. Fotografie scattate e trafugate da un fotografo forense siriano che per 13 anni ha fedelmente documentato ogni tipo di cadavere per il suo governo ("suo" contiene, a posteriori, il sapore di vittima indiretta relativamente al fotografo). A partire dal 2011, in particolare, incluso ogni tipo di tortura e di mutilazione subite dai corpi di chi con il governo/regime non andava d'accordo. Bastava una frase sprayata su un muro. L'esposizione è una botta pazzesca. Pensata – cito da un articolo del Guardian – per sensibilizzare i collaboratori delle Nazioni Unite sui crimini commessi da chi, oggi, risalita la china, è a due passi dall'essere riconsiderato un interlocurtore credibile e commestibile per sistemare la Siria. Se non stessi scrivendo queste righe, sarei già fuori a fare jogging per calmarmi. In passato ho segnalato alcuni link di studiosi che mettono in relazione l'ascesa del radicalismo estremo in Siria con una strategia dei servizi di intelligence del regime: non mi ripeto e ammetto, nel contempo, l'inconfutabilie possibilità che la situazione sia sfuggita di mano a tutti. Il caos è il clima all'interno del quale si sviluppano le guerre per mandato, le guerre degli altri. Quelle che creano mostri perché i mostri, essendo al di fuori dell'immaginabile, non recano con sé un copyright. Sono figli di tutti, ma soprattutto di nessuno.  

L'articolo della NZZ, che lascio alla vostra paziente lettura quando avrete il tempo e il desiderio di intraprenderla, è però interessante per questo: ammette, senza dirlo (ma in fondo non glielo chiedeva nessuno di dirlo esplicitamente) che la stampa occidentale si è sbagliata quando, stufa di tutti quegli arabi che si mettevano a protestare, si è ritrovata fra le mani la Siria e ogni volta che da questo Paese giungeva un'immagine ne metteva in discussione l'attendibilità. Si trattava di immagini che mostravano i manifestanti sotto una doccia di pallottole sparate dai soldati del governo. Ecco il punto al quale volevo arrivare. Questa insostenibile presunzione cartaceo-elettronica ha contaminato anche il lavoro di chi, dal terreno, portava a casa (nelle redazioni, sui Blog, ecc.) materiali che chiedevano, perlomeno, di considerare il ruolo del regime di Damasco nella violenza che si stava scatenando. È successo raramente che qualcuno ci prestasse attenzione. C'è voluta una esposizione fotografica fatta uscire in segreto dalla Siria per spiegare ai collaboratori delle Nazioni Unite (e al mondo, in questo senso), che erano vere le storie che raccontavano persone come quest'uomo, ritratto in fotografia, appena liberato (in cambio di qualche militare precedentemente fatto progioniero) dal regime di Damasco. Torturato e liberato.

© 2015 weast productions
Che cosa ci insegna questa storia, che forse l'ho fatta anche troppo lunga? Che la verità è tale quando i poteri decidono di dichiararla per vera. Le Nazioni Unite sono un potere fra i poteri, riuniscono i potenti e ne incarnano le intollerabili contraddizioni, le menzogne, il tanfo. Attendevano il fotografo ufficiale dell'obitorio di Damasco, le Nazioni Unite, per dire ai loro collaboratori e al mondo che nelle carceri di Assad si pratica la tortura. È l'ufficializzazione della realtà, indifferente alla verità. La verità l'hanno raccontata i giornalisti, molto prima dell'esposizione presso le Nazioni Unite a New York. Quelli che ci hanno lasciato la pelle, in Siria, e quelli che, fortuna loro, sono tornati a casa. Interi abbastanza per definire (con il proprio lavoro) questo organismo, che li ignora e ha sempre ignorati, un circo di tromboni. 

venerdì 20 marzo 2015

Il senso del taccuino.

Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "L'esperienza del vuoto". Qui di seguito il solito estratto (questa volta ho fregato le parentesi…):

La strada è gialla e arancione. Le pozze d'acqua riflettono i fari di qualche rara automobile che trascorre. Schegge di luce fatta a pezzi si staccano dal selciato sporco e vanno a finire chissà dove nella notte che ormai si è impossessata di tutto. Piove ancora, lentamente. C'è uno strato di plastica sottile fra il mondo e chi lo guarda. La pioggia, toccando terra, manda un rumore metallico. Due uomini camminano, uno accanto all'altro, il più piccolo in realtà saltella, per schivare le pozzanghere; l'altro ci finisce dentro, echissenefrega, fosse soltanto questo. L'uomo piccolo è furbo. L'altro è inquieto. L'uomo piccolo sa che il suo accompagnatore vuole qualcosa e forse – forse proprio per questo – la sta tirando per le lunghe, e chiama l'acqua “figlia di un postribolo” e la strada inondata e scivolosa “brutta bastarda”. Una vecchia insegna al neon ronza succhiando elettricità, in preda a un tremito che, avendo tempo, uno potrebbe anche provare pietà. L'uomo piccolo succhia nicotina da due dita della mano destra, prima che sia troppo tardi. Il fumo della sigaretta sale, lungo il braccio, sopra e sotto la stoffa, e da sotto la stoffa torna fuori, come se avesse preso fuoco tutto il corpo e non fosse rimasto che un osceno e inguardabile pezzo di carbone. Non ora, ti prego, dice fra sé e sé l'uomo più grande, che non pregava da tempo, senza di te non ritroverei la via per tornare in albergo. Fosse, aggiunge in silenzio, soltanto quella. La patina gialla e arancione della notte non è uniforme e perfetta: a una decina di metri dai due un fascio di luce violentemente bianca esce da una porta aperta, con tanta forza da suggerire l'ingannevole immagine di qualcuno che, dall'interno, la sta spingendo sulla strada. 

venerdì 6 marzo 2015

Il senso del taccuino.


© 2015 weast productions

Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Lo sguardo di Giles sulla vita". Qui di seguito il (solito, grrrr….) estratto:

Ci eravamo salutati con un abbraccio appena fuori un ristorante di Londra, pieno di gente che discuteva di progetti, di cose da fare, di come raccontare il mondo, come mostrarlo, come non trascurarlo. Di guerra. Di guerre. Per due ore buone avevamo fatto anche noi la stessa cosa. Io partivo per la Siria, Giles per l'Afghanistan. Gli avevo detto “take care”, che nel nostro lavoro è una formula scaramantica: “stai attento”. E Giles: “stai attento tu, cosa vuoi che possa ancora capitare a me?”. Si dice, nel nostro lavoro, che uno che ci è andato vicino porta bene. Giles ci era andato vicino, addirittura troppo. Nel 2011, in Afghanistan, aveva messo il piede su un ordigno improvvisato: l'esplosione gli aveva portato via due gambe e un braccio. Molti, in Ticino, lo conoscono, perché è stato ospite di una memorabile serata pubblica nel giugno del 2013. Sembra ieri. Il suo nome è Giles Duley e, a parte le fesserie scaramantiche che ci diciamo fra reporter, questo ragazzo ti mette addosso una voglia di vivere irresistibile. Meglio: una voglia di crederci. Ad esempio, credere che valga la pena raccontare il mondo, la vita di quelli che non contano e non risultano, quelli che la cronaca se li porta via, li spazza via, e che la storia, citandoli, trasforma se va bene in numeri, in percentuali, ma non gli dà un nome. Non glielo dà mai. Giles è un duro, e testardo: un altro, al suo posto, oggi non c'era più. Lui, in questo istante, è in Vietnam a fotografare quelli che non risultano. È il progetto della sua vita. Lo ha intitolato The Legacy Of War, “L'eredità della guerra”. Guerra al singolare. Come è giusto che sia: come una categoria inscindibile dall'essere umano, una (parziale, ma nemmeno tanto) definizione del suo essere al mondo e sulla terra, intesa come pianeta. 

Niente guerra.


Le immagini (qui ne pubblico un'altra) che hanno inviato due lettori del Blog si riferiscono agli interni dell'ex Collegio Francesco Soave a Bellinzona. Qualcuno ha visto giusto. Interessante, tuttavia, notare come altri abbiano invece parlato di luoghi nel mondo nei quali è in corso una guerra. Avevo promesso un ragionamento su questa "dissimulazione" o "contaminazione", ma non ne sono ancora venuto a capo. Probabilmente, pubblicare questi scatti è stato un modo per avvicinarmi al Senso del taccuino di domani, di cui fra poco pubblicherò il (consueto... aaaahhh parentesi...)  estratto.


martedì 3 marzo 2015

Ma se puoi.

Fai finta che sia facile. Ad esempio: vivere. Senza (altre) parole. Che ce ne sono già di un troppo che a uno verrebbe anche da dirglielo. Dirgli di stare zitti a quelli che le dicono. E via andando. Questo  sostiene il narratore. E l'autore? Uguale. A meno che tre ragazze su una gradinata non facciano già di loro l'inizio di tuuuutto un racconto. Posso - dice  uno - per una volta ascoltarlo io? Ma se puoi - dice l'altro - standosene zitto. Ma se puoi.      

© 2015 weast productions

lunedì 2 marzo 2015

Is It War?

Le fotografie inviate da un lettore e da una lettrice (le hanno scattate insieme: a colori la lettrice), realizzate con un telefono cellulare. Le pubblico con piacere e le intitolo "Is It War?". Perché la ritrae. O forse la ricorda (oppure: suggerisce) soltanto. Nello svelare il "mistero", ci ragioneremo in un prossimo post.


(c) 2015 weast productions

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