Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

venerdì 24 ottobre 2014

Il senso del taccuino.

(c) 2014 weast productions / gianluca grossi
Domani, sabato 25 ottobre, nel Senso del taccuino sulla Regione: "Un chirurgo (di guerra) nella foresta". Un estratto, come al solito:

Quattro giorni prima della scena all'aeroporto, c'è una fotografia. Scatti e la porti a casa. C'è una donna china su un letto nel mezzo di una stanza improvvisata: attorno, i muri grigi di una casa non terminata, le finestre senza vetri, stantufi che pompano aria fredda. Sul letto c'è un uomo grosso, ancora forte. Ridotto, però, a un bambino che non parla. Capisce, dice la donna, che è sua moglie, per capire capisce. Forse. Fatto fuori da un ictus, roba di un anno fa. Sono fuggiti tutti, la moglie, i tre figli, da un villaggio vicino alla città di Sinjar, Iraq. Fuggiti dall'esercito dello Stato islamico (IS). L'uomo si chiama Khader Amar Bekri. Lo hanno portato via su una sedia a rotelle, poi caricato su una macchina, quando ce n'era una, poi di nuovo spinto a piedi, sulle montagne, poi in Siria, per finire a Ba’adra, villaggio nell'Iraq del nord non occupato dagli estremisti dell’IS. 

martedì 21 ottobre 2014

Facce da profughi.

Facce da profughi in un giorno di pioggia battente. Avvitate sopra corpi messi su autobus. Corpi spostati causa condizioni insopportabili dalle tende ai supermercati in costruzione o alle aule delle scuole. Tutti insieme: musulmani, cristiani, yazidi. Iraq, ottobre 2014. Lo riscrivo: 2014. Non serve a niente uguale. Come se il trascorrere del tempo (e della Storia) dovesse per davvero insegnarci qualcosa. E invece il mondo è PERFETTAMENTE assente sul fronte della crisi irachena (e siriana) dei civili in fuga dallo Stato islamico. Assente. Invisibile. Non c'è. C'è qualche tenda con il logo dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite, tirata fuori da una cantina polverosa, per il resto niente. Zero. Niente tironi dell'aiuto umanitario, forse quattro gipponi blindati contati in tutto sulle strade (quelle sicure, non quelle che ti fanno sudare quel sudore che sa di stress, tensione e paura, e che ti mette addosso un odore che sa di chimica, un odore strano). Stanno tutti zitti, anche quelli che solitamente parlano e parlano e parlano e che quando si trovano un microfono a portata di mano non te lo restituiscono più, glielo devi strappare di mano. Silenzio. I profughi puzzano, meglio starci alla larga.

Non qui, non per noi. Spazio a tutte queste facce da profughi. Che ci raccontino le loro vite.

© 2014 weast productions



© 2014 weast productions

© 2014 weast productions


© 2014 weast productions

© 2014 weast productions


© 2014 weast productions

© 2014 weast productions

© 2014 weast productions

© 2014 weast productions

© 2014 weast productions

domenica 19 ottobre 2014

Impazzite di paura.


(c) 2014 weast productions / gianluca grossi
(c) 2014 weast productions / gianluca grossi
Due donne, due vecchie amiche. Sole dentro un ripostiglio dell'oratorio della chiesa caldea di San Giorgio in una città dell'Iraq che non ha più abitanti. Si erano nascoste lì e lì le abbiamo trovate. La città, tutt'attorno, silenziosa da mettere paura. Occupata fino a pochi giorni fa dalle milizie dello stato islamico, è stata liberata dai peshmerga curdi. È una città vicina al fronte come un respiro lo è all'altro: è il fronte. Sono uscite da un incubo, vive. E sembrano impazzite: per la paura e la solitudine. Chiedono acqua. Acqua e basta. La loro storia ve la racconterò presto in TV.

giovedì 16 ottobre 2014

Facce che ti guardano.

(c) 2014 Weast Productions / Iraq. 

(c) 2014 Weast Productions / Iraq.


Ci sono facce che ti guardando. E tu non sai più cosa dire. Arrivi addirittura a dubitare dell'idea che tiene in piedi la tua vita, quella che tu racconti la vita degli altri perché è indispensabile farlo. Non se sia giusta o sbagliata, questa idea. Ti chiedi a cosa serva. Ti dici che il tuo lavoro DEVE potere cambiare anche la vita degli altri, altrimenti meglio lasciare stare. È una fatica senza fondo. Queste facce da profughi che ti guardando in una tappa del tuo viaggio verso la linea del fronte, quello che morde e fa male, quello cattivo. Sono loro a consolare te, a dire che è la cosa giusta da fare. La forza che queste facce che ti guardano ti danno, chiede, mi pare di riuscire a concludere, che ci mettiamo, noi, la stessa forza per tirarli fuori dai casini. Se si può scrivere così, restando dei reporter. O magari anche no. Soltanto testimoni. Che va ancora meglio.