Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

giovedì 6 marzo 2014

Pietà. E paura.


© 2014 Max Rokotansky

© 2014 weast productions

© 2014 weast productions
A volte penso che facciamo paura alle vecchiette. Noi della "stampa". Vestiti come siamo. A volte addirittura blindati, ricoperti di un buon tredici chili di acciaio e kevlar. E incapaci di dire una frase intera nella lingua locale. Lo pensavo scattando la prima fotografia della serie, mentre venivo senza saperlo fotografato. Poi, riguardando ciò che avevo fotografato invece io, mi sono messo a pensare. E la paura è venuta a me. La paura che non c'è nulla, a questo mondo, forte abbastanza per fermare la violenza, per metterle un argine. Non la religione (lascia stare, vedi i casini che fa), non la fede (che è già qualcosa di più intimo, personale). Il secondo scatto mostra infatti ciò che stavo fotografando mentre sono stato fotografato: una vecchietta (una "babushka) ucraina che prega davanti a un altare situato dentro un parco e ricoperto di bellissime icone. Prendi il volto della Madonna che si vede sulla sinistra: lo guardi e ti dici che qualcosa esprime, qualcosa di umano possiamo dire. Se guardi meglio è ancora di più: è compassione. La compassione che soltanto una madre sa provare. Compassione per il sangue che facciamo scorrere, i morti che seminiamo e i macelli che insceniamo.

Ho sempre pensato e continuo a pensarlo: questo sguardo non ha nulla di divino. È uno sguardo umano  prodotto dal nostro sdoppiamento: ci guardiamo ammazzare gli altri e proviamo compassione verso gli altri e verso noi stessi, nella cancellazione istantanea che questo sguardo produce dei ruoli di vittima e di carnefice. Tutte vittime, e consapevoli di essere vittime anche quando ammazziamo. Tuttavia, siamo incapaci di sentirlo davvero, questo ruolo, e sottolineo: il ruolo di vittime. Incapaci di toglierci di dosso questa pelle che ci fa sentire a caccia. A caccia degli altri. Sotto sotto, a caccia di noi stessi, tesi, cioè, verso l'annientamento di noi nel momento stesso in cui ci scopriamo nell'altro. Ecco cos'è la guerra.

L'immagine di questa Madonna nella fotografia (lo scrivo maiuscolo, perché ricorda la madre, le madri) fotocopiata a colori, ci presenta lo sguardo dell'altro nel preciso istante in cui ce lo troviamo davanti e stiamo pensando a che farne di lui, se lasciarlo vivere o farlo fuori. Dal suo sguardo giunge il senso profondo della pietà nei nostri e nei suoi confronti. Non riuscendo a reggere questo sguardo, lo annientiamo.

Credo funzioni così, ci sto lavorando da anni per capirci qualcosa. Non ha nulla di religioso, tutto questo. È ontologia sotto mentite spoglie (religiose), nel caso della seconda fotografia. È ontologia e basta.

E ora la terza fotografia: il religioso in tuta mimetica con la croce e il breviario in mano. Per reggere lo sguardo che vede (senza che noi lo vediamo, ma lui lo vede), si è messo il giaccone da guerra. Sta recitando una preghiera per i morti dentro una mimetica. Stessa cosa fanno i cappellani militari. Siamo incapaci di toglierci di dosso la pelle che ci fa sentire a caccia. Dell'altro. E di noi stessi.

È questo che mette paura: tutta quella fede che la gente prova e professa in Ucraina non basta, non serve, nemmeno viene utilizzata per tenere lontano l'odio e una possibile guerra. Funziona al contrario: l'odio cresce quando vediamo l'altro e capiamo che è uguale a noi, con le stesse aspirazioni, le stesse certezze e gli stessi dubbi. Non riusciamo a reggere il suo sguardo. L'immagine di noi che proietta. Il suo essere uguale a noi. E, dentro a tutto questo, soprattutto la nostra estenuante fragilità.

È di un complicato brutto. (Continua).

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