Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 31 agosto 2013

Un miracolo. Come minimo.

Le ultime notizie sono come le penultime. E quelle prima. Uguali. Brutta storia. Missili Cruise (perché scrivo "cruise" maiuscolo, tenuto conto che scrivo "dio" minuscolo?). Missili cruise sulla Siria, in un prossimo futuro, eventually. Va bene, non sono un pacifista con le Birkenstock, a volte funziona anche à la guerre comme à la guerre. Ma la Siria, dopo tutte le storie che sono state raccontate, che ho - nel mio microcristissimo cosmo - raccontato pure io, sulla gente, dico: gente, dico: esseri umani, dico: come noi, uguali, garantisco, tu ed io, fotocopie, con tutte le storie su quello che chiedevano, prima ancora delle armi aiuti, aiuti umanitari, una mano, va'.... Che gli arriva, invece? Bombs....  Ohohoh, che storia. Ohohoh, come va il mondo.

Oggi sono stato ospite ad Arzo nella Corte dei Miracoli (C.d.M), e di nuovo ringrazio gli organizzatori per l'invito. Ci sono stato per proporre due riflessioni sulla narrazione schierata. Narrazione del mondo, si capisce. C'era moltissima gente, un pubblico straordinario che ringrazio. Per essersi preso la briga di venire ad Arzo. E per quello che mi ha fatto capire, una volta ancora: che tutte queste persone sono interessate al mondo. Con intelligenza, sensibilità, con una fame meravigliosa. Che fame resta, quasi sempre. Lo devo dire. Anzi: ri-dire. E lo ri-dico. I ticinesi (o devo dire gli svizzero italiani, correct so, sir?) sono fortissimi. Hanno una testa che funziona. Quel poco che ho detto ad Arzo, l'ho detto perché sono loro (donne, uomini, ragazze e ragazzi nella C.d.M) ad averlo tirato fuori da me. Maieutica. Miracolo!

Il mondo non si racconta mai abbastanza. L'ho detto quante volte? Sarei rimasto fino a domattina nella Corte, insieme alla gente. A incontro terminato mi sono invece nascosto nello sgabuzzino dietro il palco, perché sentivo che al tempo era stato messo un limite arbitrario, ma inevitabile. Saremmo andati avanti ancora.

Si è parlato anche di mafia in Italia, nella C.d.M: non io, l'altro ospite, Giulio Cavalli.

Quando dico che il mondo non si racconta mai abbastanza, intendo anche il nostro. Che ci piace invece osservare con troooooppa indulgenza. Facciamo finta di vivere in una democrazia perfetta. Basta un insaccato per farci dormire tranquilli e svegliare ancora meglio. Tornando a casa ho visto un cartellone destinato a trasmettere un messaggio politico, credo si tratti di questo: c'era l'immagine di una "luganighetta".... Non so cosa dire: nemmeno in Egitto, giuro, nemmeno lì, a parte la questione carne suina, ma voglio dire: nemmeno in Egitto, che è messo stramale, a uno gli viene in testa di prendere la gente per fessa a questo punto....

Perhaps, l'anno prossimo ad Arzo si parlerà anche di quello che non va qui da noi, in Svizzera.

Si parlerà ad esempio di Mohammed Al Ghanam, lo conoscete, vero?, ne ho parlato spesso. In prigione da 6 anni a Ginevra, per NIENTE, per NULLA. Vi invito a rileggere l'incipt del Processo di Franz Kakfa. Fulminante,  e calzante pure in questo caso. Un tribunale ha recentemente ordinato la sua scarcerazione per motivi di salute (roba seria) e lui dov'è? In carcere, ancora. Okristo!

C'ho pensato questa sera: su Al Ghanam ho realizzato un reportage, alcuni servizi per il telegiornale, ho scritto articoli e ne ho scritto sul blog. Servito a zero. Allora ho deciso di scriverci sopra un pezzo di teatro. Se è teatro e quindi se è fiction e quindi se è tutto quanto inventato di sana pianta, qualcosa succederà. Qualcosa di buono, si capisce. C-a-p-i-t-e-r-à-. Sarebbe un miracolo. Come minimo.

Domani la storia delle donne occidentali dentro un cabrio che ho lanciato nella Corte. Dei miracolati. Questo sì. 

giovedì 29 agosto 2013

Preparate la baguette. Con dentro una lima.


Ci risiamo. Ho visto immagini in televisione create dai grafici che, evidentemente, sono felici di dare sfogo alla loro (limitata, in questo caso) creatività, per una volta tuttavia autorizzati a scatenarsi al di fuori dei pollai delle previsioni elettorali, delle statistiche sugli incidenti domestici, delle allergie causate dai deodoranti, delle infezioni da frutti di mare al mare, delle corna messe dai mariti alle mogli e dalle mogli ai mariti, delle previsioni del tempo (che invito a eliminare, ossigeno riscattato al Pianeta). Cristosantissimo! Ho visto immagini della Siria con sovrapposto il mirino stilizzato di un cecchino.

Polli, tutti quanti. L'informazione si sta di nuovo schierando dalla parte dei padroni, che non sono necessariamente i cattivi, ma padroni restano (dei nostri pensieri, della nostra Weltanschaung). E di nuovo ci sta servendo da bere - l'informazione, anche la nostra, oddio anche la nostra - il vino avariato destinato a farci credere che la guerra mirata esiste. Che esistono bombe in grado di colpire come la pallottola di un cecchino. Che le bombe servono a qualcosa.

Aldilà della discussione su chi ha sparato il gas in Siria vicino a Damasco, oltre la riflessione se sia corretto colpire per ragioni umanitarie dopo essere rimasti a guardare la miseria umana che un intervento umanitario (ma senza bombe, con medicamenti invece) richiedeva (un intervento mai avvenuto, ladies and gentleman), credo sia legittimo fermarsi un attimo e dirci cosa cazzo ci stia a fare l'informazione. Se è, per come è, dalla parte del proprietario terriero, senza domande, senza dubbi.

A Faccia da reporter dà fastidio una cosa (e lo abbiamo detto, anche in diretta e creando imbarazzo): in Siria da tempo sta succedendo di tutto. E tutti, zitti. Ora, in presenza di un apparente e terribile attacco con il gas, si decide che ragazzi andiamo a dargli una botta. Gliela darei io, a quel regime, una botta, se potessi. Eppure, così non funziona. Ci prendono per fessi.

Ci prendono per fessi perché ci stanno dando a bere una cosa: che tutte le schifezze che succedono (in termini di violenza) a questo mondo sono accettabili se stanno da questa parte della "linea rossa". Se, invece, la superano, non vanno bene. Il problema è che la linea rossa la decidono LORO. E, altro problema, è che al di qua della linea rossa succedono tante schifezze. Che, accettando il principio della linea rosa (= utilizzo del gas), accettiamo anche di tollerare.

Il manicheismo bushiano è stato sostituito dalla visione monocromatica del mondo di Mr Obama. Va di moda il rosso.

Voi, accetate? Io no.

A costo - come sicuramente succede - di finire tutti quanti nel tritacarne dell'NSA, dei guardoni e ascoltoni che ci tengono sotto controllo, immagino anche quando andiamo al cesso (se ci portiamo l'iPad, io NON ce lo porto, voi?).

L'ho scritto. Se da domani constaterete una anomala assenza dei miei post, organizzate una baguette con dentro una lima. E portatemela. Dove non lo so, ma portatemela. Così evado.



Quelli che non ci risultano.

Ho trovato il titolo del breve - ma mi auguro intenso - percorso in immagini ad Arzo, ospitato dal Festival internazionale di narrazione, percorso accessibile da sabato alle ore 11 fino a domenica sera per chi vorrà addentrarsi dentro la Corte del Silenzio e salire una scala che porta a un soppalco fra il teatrale e l'assurdo. Sospesi sul mondo.

Ho scelto questo titolo: Quelli che non ci risultano. C'è, dentro, abbastanza Jannacci da dire che va bene. Quelli che non risultano son quelli che si prendono tutte le parole di questo mondo. Oltre che le pallottole. Vi aspetto.

Il dottore, in questa fotografia, è uno solo. Gli altri, lasciamo stare. Nella vita hanno fatto di tutto, ora fanno anche le iniezioni per l'anestesia epidurale, visto con i miei occhi (proprio in questo caso).

(c) 2013 weast productions

Testa pensante.

Intervista con il poeta Adonis sulla Siria, leggibile (è in tedesco) QUI.

mercoledì 28 agosto 2013

Narrazione schierata.

Domani si apre il XIV Festival internazionale di narrazione di Arzo. Per info cliccate QUI per visitare il sito. Sono stato cordialissimamente invitato dagli organizzatori ad esporre alcune fotografie (ce ne sono anche di inedite) nella Corte del Silenzio, visitabile sabato 31 agosto e domenica 1° settembre.






Sabato 31 agosto alle 14.30, nella Corte dei Miracoli, ci saranno l'attore italiano Giulio Cavalli e il sottoscritto per raccontare di "Immagini e parole per una narrazione schierata", guidati da Natalia Lepori.

Qui di seguito alcune info:



venerdì 23 agosto 2013

Photoshoppati mai!

(c) 2013 weast productions
Il Medio Oriente in queste ore. E noi allo specchio. La vita che non vale nulla. Si potrà ancora dire, no?  O forse ci siamo abituati, anche noi, a misurare la spinta a indignarci guardando (differenziando) a chi ci lascia la pelle, sunniti, sciiti, cristiani, radicali moderati, liberals, religiosi, egiziani, libanesi, siriani. Punto di domanda.

Sono contento di avere fatto - anzi detto - una cosa, in diretta radiofonica, giovedì in una puntata straordinaria di Modem (RSI). Anche se, probabilmente, ho creato un minimo di scompiglio fra gli interlocutori invitati, tutti (e con il rispetto parlando) soliti a guardare il mondo (e a spiegarlo) con le chiappe comodamente assestate su una poltrona adeguatamente sistemata dentro un ufficio generosamente abbondante.

Quando mi è stato chiesto che cosa ne pensassi io della Siria - più o meno così la domanda - visto che ci sono stato, che cosa ne pensassi dopo le immagini che ne sono uscite relative a un attacco apparentemente sferrato con armi chimiche non si sa da chi, ho detto questo: che invito tutti (insomma, chi ci sta) a considerare criticamente (è un understatment) l'idea che Mr Obama e con lui le cancellerie occidentali (e quindi europee) hanno inculcato nella gente. E cioè che l'utilizzo di armi chimiche "costituisce una linea rossa". Oltre la quale non si capisce bene che cosa ci sia, ma soltanto  dirla, questa frase, fa un certo effetto. Ho spiegato, alla radio, che tutto quanto sta accadendo in Siria è oltre qualsiasi immaginabile linea rossa. Da troppo tempo. Lo è quello che ho visto con i miei occhi e raccontato e mostrato in immagini e a volte anche faticato a fare credere che fosse vero, faticato a sottrarre queste immagini allo schieramento precondizionato (e chiamarlo ideologico sarebbe troppo, quasi un complimento) di qualcuno (per fortuna non credo, almeno alle nostre latitudini, in maggioranza).

Siamo fatti così. Abbiamo, tutti, le nostre beghe. Le fatture da pagare (io idem, quasi sempre in ritardo...). Non siamo votati a una causa particolarmente umanitaria, e pour cause, avendo davvero problemi tutti nostri da risolvere.

E tuttavia, il mio invito, che non vale nulla, è a rifiutare la visione del mondo che la politica ci appiccica addosso. A rifiutare di ripetere frasi come "linea rossa". Lasciamole ai politici.

Sto per partire dall'Egitto. E mi resta addosso, in particolare, la frase di Randa, addosso nella testa, se si può dire in italiano. Randa paralizzata dopo essere stata picchiata dalla polizia perché faceva la rivoluzione nel 2011. Randa mi ha detto che quella rivoluzione gliel'hanno "photoshoppata". Effetti speciali per trasformare la realtà come piace a chi crede di poterla controllare. E sono tanti. È una frase, quella di Randa, che va oltre l'Egitto.

Ecco: non lasciamoci photoshoppare il mondo da nessuno. Non dai potenti, non dai politici. Da nessuno. Non esistono "linee rosse" nella realtà. Guardiamola con i nostri occhi. Anche per un secondo solo. Ma con i nostri occhi. Photoshoppati, mai!

Ci rileggiamo e riscriviamo dal Libano, credo ormai di poter dire. Per come stanno andando le cose.

mercoledì 21 agosto 2013

"Zizi". E la riiiiivoluzione.

La storia che mi va di raccontare oggi, nonstante la Siria, nonostante l'Egitto, che ti dà (danno) una mazzata in testa ogni giorno che passa, è la sua. 1 metro e 58 centimetri di esistenza. Magra come un topolino a digiuno. Con due occhiali posati sul naso che sicuramente le impediscono di volare via. Occhiali per tenersi in equilibrio, come la zavorra appesa alla mongolfiera-giocattolo in mano a una ragazzina o il bilanciere che oscilla a cento metri d'altezza fra un millimetro e l'altro di un filo teso. E della tua vita.

Anche ordinare un panino al salmone con tutto ma senza cipolle può aprirti un mondo.
A me è successo. Oggi.

Lei se ne sta dietro il bancone e oltre il bancone dietro alla cassa. Quindi, dietro una duplice blindatura. In Egitto, la blindatura va di moda. Se ne vede per strada ovunque: centimetri di acciaio posato sui cingoli.

La sua è una blindatura esistenziale. Direi: filosofica.
Avrà - fatti i conti - un 58 anni. Minuta. Trasparente quasi, non fosse per il vestito scuro (nero?) che indossa, un tailleurino fatto su misura che non casca e non le spiove. Un gioiellino. La tiene dentro tutta, per quel poco che è, ossa e cosa saranno, una quarantina di chili fra acqua, muscoli e pelle? Fai quarantacinque.

Ordino. Panino.

Poi scopro la targhetta tenuta da una spilla sul lato sinistro della sua giacca. Sembra la ciglia di un occhio invisibile che improvvisamente mi gurda. C'è scritto: ZIZI. In caratteri maiuscoli.

Zi-Zi. Pronunciato con la "z" di "zero" inglese. La corda di una chitarra su cui fai scorrere l'unghia del pollice. Morbida.

Le chiedo: "Zizi? È il suo nome?"

"Sì..."

"Ma è bellissimo, è un sogno, è un film, un libro..."

"Thaaaank youuuuu!"

"Zizi..."

"Take care of the sandwich, Ahmed, make it really good!"

"Zizi...."

"...."

Pago. Mancia (a Ahmed). Il topolino sta sorridendo ormai da cinque minuti. C'è qualche strana pausa fra i suoi denti, ma nulla che stoni. Anzi, si addice, anche questo ritmo leggermente sincopato (leggermente, ripeto).

"Che bel nome. Che trovata! Perfetto su di lei, Zizi!"

Sorriso. E poi: "Welcome, thank you, welcome."

Che personaggio. Straordinario. Me la vedo tornare a casa, calato il coprifuoco. Rapida, agile. Impaurita. Ma pronta, eeeehhhh, prontissima a far vedere che cosa  è capace di fare al primo imbecille deciso a darle fastidio una che si chiama Zizi.

"Bye Zizi..."

"Good-bye. Welcome..."

Non vorrei esagerare, ma oggi a Zizi, dicendole che questo suo nome è una favola, le ho rivoluzionato la giornata. E lei ha rivoluzionato la mia. Lo so, una giornata dura poco. Ma una rivoluzione è una rivoluzione.


lunedì 19 agosto 2013

Strafatto di profumo.

Oggi sono finito in un matrimonio. Io, solo, fra le damigelle d'onore. Tutta colpa dei controlli all'entrata dell'albergo: davanti a me c'erano due ragazze di per sé dotate di una certa (e meravigliosa) stazza, avvolta, per di più, in un chilometro buono di stoffa, appoggiata su 18 centimetri abbondanti di tacchi, affogata in un litro tutto di profumo d'Arabia. Al metal detector hanno provocato colonna. E io dietro, col mio zainetto e i miei due ferri del mestiere. Oddio dietro, direi praticamente appiccicato. Così è successo che siamo passati insieme attraverso la sicurezza e per come vanno le cose mi sono ritrovato nel meeeeraviglioso corteo di damigelle e giù tutti per una lunga scala come stessero girando un film.

Da qualche parte un gruppo suonava all'impazzata, segno che sposa e sposo erano già arrivati e stavano per salire in camera dove si sarebbero visti per la prima volta (è quello che speravano mamma e papà su entrambi i fronti) nudi, dove lei avrebbe assaporato per la prima volta (è quello che sperava lo sposo) un uomo e dove la sposa, infine, si augurava, pregando chi poteva, che lui invece un'idea, di come una donna è fatta e "funziona", ce l'avesse già.

Nel frattempo, mentre tutti questi pensieri passavano nelle teste di tutti questi personaggi, io stavo da dio in mezzo a un morbido paesaggio di ragazze, qualcuna già sposata, qualcun'altra ancora in attesa. Scendevamo e scendevamo insieme quella scala, io ero ormai strafatto di profumi ed essenze, i miei occhi erano perdutamente prigionieri degli svolazzi delle abbondanti stoffe. Avanzavo al ritmo, deciso e tuttavia indefinito, di una buona ventina di tacchi a spillo. Io come un re.

Dovevano, le ragazze, appartenere alla buona società, perché pur essendo egiziane con certificato, si esprimevano in inglese, con quell'accento americano assorbito consumando ore e ore - ma cosa dico: giorni, mesi, anni  - di serie TV a stelle e strisce. Spazzatura. Io avrei voluto urlare: silenzio! Lasciatemi svanire dentro questo sogno meraviglioso. Lasciate che mi perda nella illusione che voi tutte, ragazze, siete qui per me e che ora, tutte insieme, mi state portando in piscina, dove mi vedranno per una volta almeno arrivare non solo e con due cellulari in mano, noooooo, non solo, questa volta bensì accompagnato da 10 ragazze.

Non mi sono perso in nessuna illusione. Ho invece svoltato a sinistra verso gli ascensori con lo sguardo basso. Mi avevano beccato. L'intruso. Vestito da schifo. Neanche profumato. Neanche annunciato. Giuro che una, una soltanto ma una basta, mi ha guardato. Ho sentito i suoi occhi sulla schiena mentre strisciavo verso l'ascensore. Due laser assassini. Bruciavano come una sfida. Gìrati, mi dicevano, gìrati.

L'ho rivista questa sera, devo ammetterlo aveva il trucco un po' sciolto, ma era bella come prima. Mi ha guardato, ha esitato un attimo, e ha tirato dritto. Ci siamo detti in silenzio una cosa: che domani - o forse ancora questa notte - fuori da questo fottutissimo albergo la gente potrebbe tornare a morire. Per niente. O cristo, che giornata.


Quella puzza di violenza, di odio.

(c) 2013 weast productions / Amira Al Tahawi, giornalista

Domani, nella Regione, racconto dal Cairo, di cui pubblico qui il (solito) estratto. Nell'articolo conoscerete anche Amira, una giornalista egiziana che, fra i pochi rimasti, pensa con la propria testa.

Sul largo vialone che conduce a Piazza Ramsìs sono rimaste centinaia di pietre, abbastanza per farci una guerra. I muri dei pilastri che sostengono il cavalcavia sono butterati dai proiettili. Tira una strana aria, in realtà è la solita : quella che puzza di violenza, di odio. E che pesa, sui polmoni : una melassa catarrosa che non la sputi fuori più. E c’è, in quest’aria, la vibrazione bassa e costante della consapevolezza che aggredisce i civili prigionieri della violenza, come una malattia che non guarisce : morire così non ha senso.  Hai voglia a convincere una madre che suo figlio è un martire ed è morto ammazzato per una causa. Non passa. Non con le madri. Non con quella che tiene gli occhi bassi e appena il mio corpo diventa ombra sul marciapiede, alza lo sguardo e me lo posa sopra. Ed è uno sguardo dentro il quale precipiti, portato via dalla vertigine della caduta che prende velocità e non vuole finire. Non finisce. Lesh ?, sussurra la donna. Perché ? Una domanda che ha un significato duplice : perché ammazzarlo, mio figlio, che aveva ventidue anni ? E perché farsi ammazzare, a ventidue anni, per che cosa ?

domenica 18 agosto 2013

Senza film d'amore. E senza un figlio.

(c) 2013 weast productions
Oggi ho incontrato un attore senza lavoro. Al Cairo. Nella sua vita ha recitato in due film e in 100 serie sentimentali da disidratarti per le lacrime versate. Ieri avevo incontrato una madre, davanti a un ospedale vicino a piazza Ramsìs, che aspettava, seduta sul marciapiedi, fuori, che le consegnassero il corpo di suo figlio. Come un pacco. Ucciso il giorno prima, venerdì, dalla polizia che sparava da un tetto, oppure da una pallottola anonima. Perché in Egitto si racconta di tutto, e non si sa più niente per davvero. Nella sua vita, questa donna, ha fatto cinque figli. Il più giovane se ne è andato.
L'attore è convinto che i Fratelli musulmani vadano sradicati dall'Egitto come un'erba cattiva. La madre sopravvive appesa al significato che tutti (ma non sul marciapiedi, non quelli che attendono cadaveri come lei) suggeriscono che abbia (che ha, dicono) il martirio del figlio. Il figlio probabilmente ci credeva, alla protesta, ma non si aspettava una pallottola.
L'Egitto, oggi, è questo. Non aggiungo altro.

Una cosa, diversa. Tutte le TV egiziane mettono in sopraimpressione alle immagini che trasmettono una scritta che dice "Egypt is fighting terrorism", l'Egitto combatte il terrorismo. Uguale uguale ai loghi che CNN e company (e tutti i giornali del mondo, quasi, ma credo davvero tutti) nel 2001 e a seguire hanno adottato: "war on terror", guerra al terrorismo. Soltanto che la CNN oggi sembra la TV dei Fratelli musulmani. A palla dalla loro parte, in un modo che dà fastidio per l'assenza di un minimo (non si chiede di più) di riflessione sullo stato delle cose. Fa uno strano effetto vedere e ascoltare dei presentatori e degli inviati americanissimi che, quando USA e Company combattevano e uccidevano in Afghanistan (lo fanno ancora) e Iraq non la smettevano di ripetere che i loro boys davano la caccia ai cattivi. Oggi, si ritrovano davanti lo specchio della loro ipocrisia seguendo le TV egiziane. E, pur di non guardarsi per non riconoscersi, scelgono il partito preso. Come va il mondo... 

sabato 17 agosto 2013

Vai a sapere.

C'è il coprifuoco al Cairo, ma a volte alcune vetture passano comunque. I posti di blocco organizzati dai civili che cercano sostenitori dei Fratelli, sono come questo in immagine.

(c) 2013 weast productions
Aneddoto. Nel 2002, durante il lungo assedio israeliano (con coprifuoco), molti abitanti di Betlemme si sono presi tutto il tempo che c'era per fare l'unica (mi spiegava un amico) cosa sensata da fare: l'amore. Sono nati un sacco di bambini fra il 2002 e il 2003. E poi gli israeliani si lamentano che i palestinesi producono. Dovrebbero pensarci un attimo, pensarci prima.
Mi chiedo che cosa facciano gli egiziani durante il coprifuoco. I palestinesi mi sembrano un'idea più sgamati, ma vai a sapere.

Da versare. Come lo champagne.

Non me ne separo mai. Continuo a rileggerlo perché c'è dentro tutto. Tutto il mondo. Sto parlando di Delitto e castigo. L'ultima volta l'ho letto nell'Est della Siria, lo leggevo di notte, avvolto nel sacco a pelo e contando i mortai che cadevano, alcuni in lontananza, altri meno. Lo sto leggendo anche ora, di nuovo, al Cairo.

Rodja (Rashkolnikov) sta discutendo con la sorella Dunja. Ecco il passaggio:

"Fratello, fratello, ma cosa dici! Tu hai versato del sangue!" esclamò Dunja, disperata.

"Come lo versano tutti", replicò lui, in uno stato di quasi esaltazione. "Quel sangue che scorre nel mondo ed è sempre scorso come una cascata, quel sangue che si versa come champagne e per il quale si viene incoronati in Campidoglio e chiamati benefattori dell'umanità... Basta guardare un po' più attentamente, cercare di vederci chiaro!"

A parte lo champagne (dubito che qui venga versato...), c'è una saldatura straordinaria con quanto sta accadendo in Egitto (e non soltanto), e non soltanto - aggiungo - guardando a una parte in causa. Direi: guardando a tutte le parti in causa. Sangue per il potere. O qualcosa che significhi all'incirca questo.

Adesso bevo una birra.

Non (proprio) i benvenuti.

Oggi diversi attacchi da parte di non meglio identificati civili (sgherri, comunque, gente prezzolata) contro giornalisti occidentali al Cairo. Indicatore molto preoccupante. Il governo ci sta mettendo del suo, anche se ha ragione a criticare una presa di campo di principio (e sicuramente non favorevole a chi comanda attualmente) di alcune testate internazionali. Mettessero in campo, queste testate, lo stesso coraggio controcorrente quando si tratta di Israele nei Territori palestinesi o degli USA in Afghanistan e (in passato) Iraq...  E invece, niente.
Tuttavia, un governo non può creare una atmosfera antigiornalisti, ben sapendo che, per come vanno le cose in questo paese, la gente (buona parte) assorbe, manda a memoria e passa all'azione.


Quattro sfigati. Anzi cinque.

Nel giardino dell'albergo dove abito al Cairo sono seduti quattro sfigati. Cinque con me. I camerieri si muovono con l'entusiasmo degli ergastolani, qualcuno sembra appena rientrato da un turno di lavori forzati. Per non parlare di certe facce da braccio della morte (toccando ferro).
Passiamo agli ospiti. Uno mi gira la schiena e sussurra cose mielose dentro un iPhone alla - si spera - fidanzata dall'altra parte del filo (si dice, con un telefonino?). Il cell gli scivola dalla morsa fra spalla e mascella e gli va a finire proprio lì, sulla cerniera dei pantaloni, diciamolo: fra le palle. Fa per ripigliarlo e si dà una botta pazzesca. Cade anche la chiamata, diosantissimo.
Passa un altro con le Hogan ai piedi, che ha capito zero di quello che sta succedendo, altrimenti se le toglierebbe.
Alle mie spalle è seduta una ragazza che mangia in silenzio, troppo silenzio. Sembra una lupa ferita.
Un tizio continua a cambiare posto. Strafatto di adrenalina.
Io conto le sigarette rimaste nel pacchetto.
Ma si può?
Il giardino delle anime perdute accoglie vita, improvvisamente.
Arriva Robert Fisk nel momento preciso in cui stavo pensando a lui e a dove sarà finito questa sera. Ordina (credo) la solita pizza e si siede dove non riesco a vederlo.
Una ragazza secca ma con la pelle lucida di crema-appena-messa si siede a un tavolino. Si aggiungono, per andarsene subito, figlio (ma a quanti anni lo avrà fatto?, è giovanissima) e badante oppure mamma del marito (che in italiano si dice come?, non sono pratico). La ragazza fa partire l'iPad e guarda un video che non vedo ma che riconosco dal volume: il casino di oggi a piazza Ramses al Cairo. La realtà, o una parte di essa o soltanto una sua versione. La ragazza cerca il volume sul tablet, è davvero un po' troppo forte in questo giardino. Con i cancelli dell'albergo chiusi, il ponte levatoio alzato e le guardie sui merli. Guarda come è brutto il mondo fuori. Soltanto, vedi, è il mondo. Così com'è.
Ecco, la realtà è entrata in questo giardino protetto. Un attimo soltanto. La pelle della ragazza manda uno strano e improvviso bagliore, come una lampadina che prende l'elettricità e poi va in corto circuito. Il mondo è ovunque. Hai voglia a tenerlo fuori.
Flash-back: rientrando in albergo, solo come un ometto di cento anni nella notte deserta finisco in un posto di blocco dei militari, in realtà sono loro a vedermi e allora mandano qualcuno che mi urla torna indietro. Documenti e tutto il sacrosantissimo ambaradan di tessere e controtessere rilasciatissime dal ministero dell'info egiziano. Tutto a posto. Tutti gentili. L'unica cosa che noi svizzeri abbiamo fatto agli egiziani è non avere restituito i fondi congelati di Mubarak. Ho praticamente la fedina immacolata. L'ufficiale mi dice: Take care. Ci puoi contare.

venerdì 16 agosto 2013

Il proprio gioco. Sporco.

(c) 2013 weast productions

Mi piace sentirmi a casa in albergo. Mi permette di constatare l'umore, la situazione esistenziale dei camerieri che si fermano, mi salutano e mi parlano. Beneficio di una sorta di "prospettiva biografica" nei confronti di queste persone. Uno dei camerieri, questa sera, mi dice: "non so più chi ha ragione e chi ha torto. I buoni, i cattivi... Tutto è immerso nel buio". È, insieme alla frase sulla realtà di Wael, una delle frasi più oneste che abbia sentito oggi in Egitto. 

Nelle strade si sta decidendo una battaglia politica: combattuta con i proiettili e con il numero dei morti. Anche i morti sono armi. E i proiettili sono le parole che i militari parlano e capiscono. Funziona così, da queste parti. È un disastro. Vivi sacrificati in una battaglia su cui tutti rovesciano le proprie parole e le proprie analisi. Militari - e chi li sostiene - convinti che il piombo possa condurre a conclusioni pacificatrici. Manca, in tutto questo, una parola: responsabilità. È ancora presto per auspicarla. Per aspettare che venga pronunciata.
Guardiamoci in giro, in questo Medio Oriente, mondo arabo in senso più lato: lasciato solo, affinché tutti - dico tutti - possano fare il proprio gioco. Sporco, va da sé. 

Non esiste più la realtà.

Credo che l'Egitto interessi un po' tutti, perché un po' tutti ci sono stati in vacanza. Si sta mettendo male.   Oggi ho constatato la presenza di posti di blocco organizzati da civili, danno la caccia ai sostenitori dei Fratelli musulmani. Qualcuno impugnava un coltello, altri reggevano sciabole. A un posto di blocco ho sentito anche uno sparo, credo una pistola. La tensione è a mille. La gente è scalmanata. Fa un caldo prepotente, è umido da strizzarti la maglietta: non aiuta a pensare.
I proMorsi si sono riuniti in una piazza del Cairo: matematico che ci sarebbero stati dei morti. Ci sono stati. La polizia sparava da un tetto di una caserma. Sotto, corpi cadevano. Nessuno, però, ha pensato di fermarsi un attimo, di ragionare.
Sto leggendo un libro che spiega la psicologia della folla, scritto una vita fa. La folla equivale alla sospensione del giudizio individuale. Sei folla, agisci da folla. Il tuo corpo non è più tuo, è un arto di un corpo enorme.
Mi trovo a pensare sempre di più a come nasce la violenza, a come un essere umano si trasforma al punto da dare la morte e addirittura essere pronto a riceverla. Che cosa innesca un meccanismo collettivo che oggi rischia di distruggere una città come il Cairo e forse l'intero Egitto?
Forse è soltanto psicologia spicciola, ma mi riesce sempre più difficile raccontare soltanto notizie, dare il numero dei morti. Devo e voglio capire cosa ci sta dietro. In realtà ho sempre cercato di percorrere questa strada, ma ora è un'urgenza.
A proposito di strada: quelle del Cairo sono diventate dei labirinti. Se ti sposti in macchina (ma anche a piedi) sei in continuo zig-zag alla ricerca di un passaggio che riesca ad aggirare gli scontri.
Spari sul ponte davanti al mio albergo.
Il mio amico Wael oggi mi ha detto una cosa geniale: In Egitto non esiste più la realtà.
Vuole dire che è sempre più difficile vederla. Credi di averla vista e scopri che c'è dietro un'altra cosa. Se ascolti il racconto dei fatti alla TV oppure ascolti i proMorsi, ti ritrovi sotto un mucchio di parole e di immagini, di teorie, di speculazioni alternative alla realtà.
Contano i morti: oggi sono stati molti, di nuovo. Egiziani contro egiziani. Si sta mettendo male. Davvero. Se a qualcuno interessa, guardate il TG delle 20.

giovedì 15 agosto 2013

Un caffè nel coprifuoco. E sei nato al Cairo.


Ci vuole poco a fare a pezzi un paese. Vedi l'Egitto. Mi stupisce, poi, constatare un fatto, non per la prima volta: come siamo propensi, noi esseri umani, ad assorbire qualsiasi cosa ci venga detta. E a crederci, fino in fondo, fino a trasformarla nell'ultimo pensiero prima di addormentarci. Vale per tutti, qui in Egitto, Fratelli musulmani e chi li sostiene, militari e chi li sostiene.
Camminare nelle strade vuote di gente e automobili dopo il coprifuoco mette i brividi. È un po' come quando, da bambini, ce ne andavamo in giro al buio e qualcosa di irresistibile ci faceva girare la testa, guardarci alle spalle, immaginarci qualcuno (un mostro, una presenza cattiva) e via a correre tutti. Non si corre in una strada con il coprifuoco se non vuoi finire impallinato, ma con tutta l'esperienza di questo mondo, con tutte le strade buie e deserte che uno si è fatto a piedi, un brivido alla schiena non te lo toglie nessuno. Giri l'angolo e trovi un caffè aperto: il televisore è acceso e trasmette propaganda, tre uomini bevono il tè e succhiano tabacco da un narghilé. Ti fermi a bere un tè e quasi ti senti nato al Cairo. È a questo punto che, nonostante tu sia venuto per testimoniare e raccontare, ti viene addosso una sorta di magone: ti dispiace per questo paese, per la sua gente, per quello che sta succedendo. E cristo, ti dici, sarebbe così facile uscirne, ancora, vivi, quasi tutti, e quasi tutti interi. E invece no. Perché l'essere umano è fatto così.
Coprifuco: in Egitto si dice che quando c'è il coprifuoco, la gente esce di casa per vedere che cos'è. È successo, nei due anni scorsi, soprattutto quando era un coprifuoco imposto in alcune aree del paese. Questa volta è diversa. Tutti in casa.
Oggi un mio caro amico mi ha detto: l'Egitto ha bisogno di sviluppo e di democrazia. Dobbiamo decidere con che cosa iniziare. E non sono sicuro che mettesse la democrazia al primo posto. Il problema è che uno implica l'altra e viceversa.
I giornalisti vanno in un posto per raccontare quello che succede, poco importa che cosa sia e quanto pericoloso sia. Quindi, dice qualcuno, se la cercano. Il Blog, che combatte questa visione facilona del mestiere, vuole ricordare, oltre ai morti fra ieri e oggi, anche i colleghi giornalisti uccisi al Cairo. Non se la sono cercata. Hanno fatto il loro lavoro. E il loro dovere. 

lunedì 12 agosto 2013

Yemen.

Il catalogo.
Numerosi lettori e lettrici del Blog mi hanno chiesto dove si può acquistare il catalogo dell'esposizione Yemen, la sfida raccolta, visitabile presso l'Ospedale Regionale La Carità di Locarno fino al 31 settembre. Ecco, i cataloghi li trovate in libreria a Bellinzona (Taborelli) e a Locarno. Oppure direttamente chiamando il centralino della Carità +41 91 811 41 11.

Posta dell'altro ieri.

Mi sono accorto, grazie a una sollecitazione, che da un po' di tempo Blogger non mi invia più le email di notifica dei commenti di lettrici e lettori che poi, schiacciando un pulsante virtuale, indirizzo alla pubblicazione. Ho in tutta fretta recuperato qualche istante fa, sicuramente dimenticando qualcuno. Mi scuso per questo inconveniente con tutti quanti hanno trovato tempo e desiderio di interagire.

domenica 11 agosto 2013

Oprah mi legge.

Oprah Winfrey legge il mio Blog. E io, forse, sto per cambiare vita. Per sempre. Fiuto aria di contrattone. Come minimo divento il suo PR. E tutto questo grazie alla lettura che ho dato dell'impari scontro avvenuto al “Trois pommes” di Zurigo fra la regina del talk americano e una commessa italiana o di origini italiane che, vedi come va la vita, se l'è trovata di fronte nella boutique paradisiaca sulla Bahnofstrasse e quel giorno non se lo dimenticherà mai più. Impresso come un tatuaggio.

Vado veloce: Oprah è montata su tutte le furie perché al “Trois pommes” la ragazza non ha voluto mostrarle una borsetta di cocodrillo dicendole che era “troppo cara”. Oprah se l'è presa e lo ha detto a nonno Larry King che lo ha detto al mondo intero. Razzismo, discriminazione. Mi ero permesso di suggerire una lettura diversa, un po' ironica del fatto (vedi post “Io come Oprah. Ma senza Larry King”). E Oprah cosa mi fa? Twitta la versione che le ho suggerito. Lo fa il 9 agosto, in concomitanza con la pubblicazione del mio post.




Non sto più nella pelle (la mia, non quella del cocodrillo sotto vetro al “Trois pommes”). Sono forse e per davvero di fronte a una svolta epocale della mia esistenza. Se succede, giuro che me la tirerò di brutto. Se, invece, non succede, vedrò di chiarire come siamo messi a diritti intellettuali circa la mia lettura dell'incidente in boutique e il Twitt di Oprah. Affronterò la signora Winfrey. E le chiederò: signora, mi ha copiato, plagiato, derubato?

Avrebbe potuto chiedermelo, almeno. Si usa. Io, questa ipotesi di lettura, gliel'avrei regalata, tranquillo, senza fare una piega. Perché, vede, signora, diversamente dal compianto cocodrillo che non ha nemmeno la magra consolazione di aver(le) venduto (cara) la pelle, questa mia idea è impagabile.

C'è un altro Twitt della Divina. Questo:



Confesso: sto meglio. Più tranquillo. Riesco, nuovamente, a concentrarmi. Sapere che Oprah ha apprezzato la Spa del Grand Dolder Hotel, avere la consapevolezza che l'hanno trattata bene e poter contare sul suo espresso desiderio di “rifarla” quella sauna o quella nuotata o quel bagno turco mi ha rimesso in pace con il mio Paese. Pensare che un giorno, un paio di anni fa, ero entrato in un albergo di Ascona – un albergo di lusso, chiarisco - per incontrare qualcuno che lì stava cenando. Vestito come al solito, tasche laterali e via che vado. Il portiere mi ha bloccato, dapprima con lo sguardo (hai sbagliato entrata, amico), e poi con le parole (lei cosa cerca?). Ho risposto, ridendomela dentro, che cercavo il Dr XY che era lì a cena. Il portiere deve aver capito che IO ero il Dr XY e che ero lì per cena. A quel punto, sono diventato qualcuno. Ho cenato (ha pagato il Dr XY) e, uscendo dall'albergo, sono rimasto davanti alla porta a vetri girevole fino a che il portiere me l'ha aperta. Su di me non aveva cambiato comunque idea. Voleva, soltanto, avermi fuori dai piedi. Al più presto.

Il mondo gira così, cara Oprah: se decidiamo di frequentare i posti dove la gente se la tira oppure, semplicemente, tira fuori un sacco di soldi, dobbiamo stare al gioco e aspettarci che un giorno qualcuno ci tiri un brutto scherzo. Magari senza volerlo, soltanto per abitudine. E tu vai a capire sulla base di che cosa uno o una conclude che non abbiamo la faccia da soldi.

Finale: mi ha sorpreso constatare l'assenza totale del fuoco di fila degli animalisti. Nessuno che si sia alzato a dire: cristo, Oprah, una borsetta in cocodrillo, proprio quella hai chiesto di vedere? Non si fa. A parte non comprarla, una borsetta così non si guarda nemmeno. 

Ora chiudo. Se mi arriva il contratto, giuro che lo metto sul Blog.





venerdì 9 agosto 2013

Imparare le loro vite.

(c) weast productions 2013

Mi ero giurato di non parlarne. Ma è più forte di me. Le polemiche, esplose all'estero, su Bremgarten e la questione “rifugiati”. Nel senso: li lasciamo andare in piscina? Li facciamo entrare nei parchi? Ecceterea. Questa sera ho fatto due passi sotto casa e ho incontrato due donne (giovani), una spingeva una sedia a rotelle. Seduto, piegato come una cannuccia sul lato sinistro, un ragazzo. Africani. Mi fermo, li saluto e chiedo da dove vengono. Inizio a parlare con le due donne, in inglese. Sono eritree, il ragazzo, gravemente andicappato, è il figlio di una di loro. Sono in Svizzera da 9 mesi, in attesa di decisione sulla loro richiesta d'asilo. Vivono in quello che chiamano “albergo”, uno stabile vicino alla Stazione di Bellinzona dove, fino a un anno fa, i clienti andavano per cercare ragazze, molte dell'Est, alcune africane: un ex postribolo. Mi chiedo se lo Stato, oggi, paghi l'affitto agli stessi proprietari.

Ho trascorso 15 minuti ascoltando le due donne. Ho imparato molte cose, che non sapevo.

Sono per metà malcantonese. Ad Astano, durante la seconda Guerra mondiale, gli internati polacchi hanno bonificato una zona paludosa che oggi è ricoperta di campi e attraversata dai turisti. Dietro hanno lasciato anche qualche figlio. Oggi, qui da noi, a qualcuno è venuta l'idea di far lavorare i richiedenti l'asilo in attesa di decisione. Li pagano 3 franchi all'ora per sistemare sentieri sui quali non passa nessuno e ramazzare strade che sono comunque già pulite. Ad Astano c'è una targa che ricorda il lavoro degli internati polacchi. Del lavoro dei richiedenti l'asilo non resterà nulla.

Mi è venuta un'idea, da un po' di tempo: portiamoli nelle scuole. Che raccontino. La loro vita. Spieghiamola ai ragazzi. Utilizziamo, se non ci sono ore disponibili, ore sottratte a lezioni inutili. Ci sono e, oggi, non le cito. Ma ci sono. Se la scuola deve preparare alla vita, allora la vita di questi rifugiati costituisce un tassello.

Portiamoli a teatro, diamogli un palcoscenico, facciamogli raccontare la loro vita davanti al pubblico.

Diamogli una pagina sui giornali, dove scrivere ogni venerdì e se non ci sono pagine togliamole a certe penne artritiche e senza ispirazione.

Diamogli, una volta a settimana, due minuti al Telegiornale. Il sabato mattina, tre minuti alla radio. Se non c'è spazio, nel palinsesto, togliamolo al Meteo, per parlarci chiaro, che è ossigeno rubato al Pianeta.

A qualcuno questa idea sarà già venuta, non lo so, ammetto di non essere informato. Delle polemiche all'estero non mi preoccupo: nessuno, in Europa e in materia di rifugiati, ha i numeri per impartire lezioni agli altri. Tuttavia, vedendo oggi le immagini della Consigliera federale Simonetta Sommaruga insieme ai giornalisti (fragile, la Signora, nel senso della sostanza prodotta, della presenza...), e soprattutto ascoltando le sue un po' faticosamente e scontatamente pronunciate parole, mi sono detto: idea!

Un giorno, signore et signori, potrebbe capitare a noi. Mio nonno Ambrogio era emigrato in America per trovare lavoro e guadagnare soldi per mantenere la famiglia. Ce l'ha messa tutta, sempre nel rispetto della legge (questa è una premessa sulla quale nemmeno mi soffermo, è davvero implicita e imprescindibile). Un giorno, mio nonno è tornato a casa. Altri, della famiglia, sono rimasti, e quel paese hanno contribuito e oggi contribuiscono a tenerlo in piedi. Potrebbe toccare a noi. Vuoi mettere se ci dessero, oltre alla possibilità di attendere una decisione sul nostro futuro (resti o te ne vai), la possibilità di raccontare chi siamo e da dove veniamo, che cosa abbiamo fatto nella vita e che cosa, ancora, dalla vita ci aspettiamo, per quel poco che sia, per quel poco che ci vorrà dare?

Ci vorrebbe una politica, per questo. E, aggiungo, anche dei politici. Che non ci sono. Piatti. E senza fantasia. Burocrati. Da paura. 

Io come Oprah. Ma senza Larry King.

(c) 2013 weast productions
Di Oprah Winfrey non me ne importa nulla. Ha raccontato la sua storia di fronte a un Larry King che si stava addormentando. Io, a quel punto, dormivo già e ho dovuto riguardarmi lo spezzone dell'intervista. La signora Winfrey è capitata su una commessa che le ha consigliato di non acquistare la borsetta in pelle di cocodrillo al “Trois pommes” di Zurigo sulla quale aveva messo gli occhi. Oprah ci fa capire che la commessa lo ha detto dopo averla guardata e concluso che, probabilmente, non portava il cash necessario. Ci facciamo tutti, ogni giorno, delle idee sbagliate.

Proviamo a girare la storia.

Lettura numero uno: e se la commessa lo avesse fatto a fin di bene? Se le avesse detto quel “troppo cara” (35mila dollari) non inteso come un “troppo cara per lei”, ma come un “troppo cara in generale” e quindi, sintetizzando, da intendere nel senso: “questa borsetta è una RAPINA”? Voglio dire, un pezzo da esposizione (pare sotto vetro, magari antiproiettili, ma il cocodrillo lo avevano comunque già impallinato), troppo cara nel senso filosofico e ontologico del termine: troppo cara per quello che vale e quindi, in definitiva, per quello che è. Un pezzo di pelle animale proveniente da una palude e dalla matita di un designer che se la tira di brutto. Un consiglio, quindi.

Lettura numero due del caso Oprah (pensare che ho iniziato dicendo che di Oprah non me ne importa un fico secco, ma ci arrivo): a me è capitato più di una volta di finire in un albergo e di chiedere una camera. I raggi X degli israeliani quando esci da Gaza sono nulla al confronto dello sguardo che il boy o la girl alla reception hanno proiettato (e proiettano, mi succede regolarmente...) sul mio corpo ricoperto di, nell'ordine, T-shirt sudata e non pulitissima, pantaloni non pulitissimi e con i bordi sgualciti, zaino impolverato, camera 1 sulla spalla destra, camera 2 sulla spalla sinistra, barba su guancia 1 e guancia 2. Tant'è che più di una volta ho pensato bene, per accorciare le pratiche, di aggiungere un: “la posso pagare”. Nel senso di: me la posso permettere. Quando hai bisogno di internet veloce e di un televisore con più di tre canali scegli, scartando le pensioncine, un albergo con qualche stella. È lavoro, anche questo.

Un giorno, anni e anni fa, tornando da Bagdad, stavo ingannando il tempo all'aeroporto di Amman. Avevo lavorato bene e, quando lavori bene, te la senti di attraversare l'area del duty free. Lo fai quasi per scaramanzia. Per sentirti vivo. Okay, c'ero dentro, in piena zona duty. Guarda questo negozio! Gioielli: mi fermo, guardo, trovo. Una catenina, meravigliosa. E, soprattutto, pagabile, qualcosa sui 200 dollari. Avevo, allora, una ragazza che mi aspettava, dall'altra parte del volo, quando sarei atterrato, una ragazza palestinese stupenda. Sul suo collo quella catenina si sarebbe incendiata di luce. Chiedo al commesso di vederla, nemmeno di toccarla, vederla da vicino. Lavoro sul prezzo. Lui mi guarda, come fosse – passando all'oggi con il paragone - lui Obama e io un pastore yemenita che gli sta chiedendo di rinunciare ai droni.... Mi guarda come fossi un povero cristo, e l'aria, in realtà, ce l'avevo tutta dopo qualche settimana di Iraq. Il commesso sorride storto, quasi a suggerirmi (lo sento ancora quel sorriso coglione) che nel reparto profumeria ci sono alcune offerte speciali sicuramente alla mia portata e sicuramente sintonizzate sul gusto della destinataria della mia attenzione. Io, da stracafone, gli dico: amico, ti compro il negozio se la tiri per le lunghe, una sorta di poker psicologico. Gli ho mollato 180 dollari (mi ha pure fatto lo sconto) e me ne sono andato con un sorriso.

La catenella esiste ancora oggi e, oggi ancora, mi è stato detto, capita che in qualche ristorante in Medio Oriente si incendi di luce sul collo di una ragazza palestinese diventata donna. Se ne sta seduta di fronte a un uomo che non sono io - va bene, è la vita – che non smette di guardarla e di dirsi che quella donna che gli sta davanti è bella, ma bella sul serio. A oggi, lui non ha ancora osato chiederle da dove provenga quella catenella che rimbalza nell'universo la luce di due occhi scuri, ma scuri davvero. Da finirci dentro, per sempre.

Ciò che voglio dire è che se me la fossi presa e se fossi montato su tutte le furie al duty free di Amman, una buona decina di anni fa, questa immagine oggi non ce l'avrei. E nemmeno tutta la storia che mi regala. Se fossi andato dal Larry King di turno (averne uno...) a dire che mi sono sentito discriminato perché ero poco pulito, poco elegante, poco credibile e che, in sostanza, non profumavo di cash, mi sarei privato di un pezzo di vita da ricordare.

Lo so, non sono Oprah. Eppure, avrei potuto anch'io chiedere di vedere la catenella più cara e poi decidermi per quella da 200 dollari (pagata 180, ripeto). E se il commesso mi avesse detto “quella è troppo cara”, prima di incazzarmi mi sarei chiesto se non stesse forse tarsmettendomi un segnale in codice del tipo: quella è davvero stracara, in assoluto, per quello che vale, per quello che è, detto fra noi due, amico. E resti, se posso aggiungere da straserio, forever fra di noi. Ricevuto. Al duty di Amman, tuttavia, confesso che ero messo male, male davvero dal punto di vista estetico. O giù di lì. 

martedì 6 agosto 2013

Provvisoriamente sdentato...

(c) 2013 weast productions

Pubblico SMS che dà seguito - credo - al mio invito a segnalare i parti meravigliosamente sprovvisti di riflettori, contrappeso alla insipida tiritera britannica (royal baby) assecondata da una stampa mondiale (e locale) che ha smarrito i sensi (nell'ordine) del: fiuto, gusto, buon gusto.
Un piccolo riflettore lo accende il Blog. Ecco l'SMS:

"Da pochi minuti il nostro sguardo è allietato da un meraviglioso sorriso, provvisoriamente sdentato... Per la gioia della sua mamma e del suo babbo è nato G., 3,2 kg per 49 cm ma già con molta energia in corpo..."

Grazie, aggiunge Faccia da reporter.

La fotografia mostra una ragazza che, del suo pancione, ha fatto, con l'aiuto di una sua amica, un calco in gesso da trasformare in scultura bronzea.

Love is in the air...

Io, dentro.
(c) 2013 weast productions

Mi facevo più semplice. Dentro. Una colonna vertebrale – quella ci vuole – e al massimo un mucchietto di terminazioni nervose messe lì alla bell'e meglio e, per quanto insicure (non sono uno easy da starci insieme), comunque rassegnate a fare quello per cui sono state progettate. Trasmettere. Informazioni. Anche quelle che fanno male. Un male da dire signoresantissimoma!: ma che cosa ho fatto di male? Nella vita, I mean.
Figliolo, hai fatto un sacco di cazzate nella tua vita.
Ioooo?
Yes, you!
Fottuto bastardo che non sei altro....
Calma. E vado. Ribobìno il nastro. L'ho fatto davanti al medico, ai medici, questione dei giorni scorsi, da quando il Blog, signore et signori, si è un pelo ammutolito. Che roba strana i medici: parlo per me, che sono abituato a vederli quando la sfiga tocca agli altri, metti una bomba, una sventagliata di pallottole, fosforo bianco, sassi, acido, una jeep militare sparata a cento all'ora in mezzo a un paesino a migliaia di chilometri dalla nostra perfezione posticcia e guarda quella ragazzina che va a fermarsi proprio lì, sulla strada, “quando passiamo noi militari che abbiamo fretta”. E la precedenza. E tutte le armi di questo cazzutissimo mondo montate addosso e sulla blindatura del mezzo. Ma che cosa le hanno insegnato i genitori, a 'sta bambina? Troppo tardi. Dov'è? Schizzata via, a cento all'ora. Messaggio radio: “We have got a girl, this time...”. “A girl?” “Roger...” “Okay, never mind”. Cristo...

Io, davanti a un medico, mi sento quasi come appiccicato a un confessionale: gli devo dire tutto. E attendo l'assoluzione. Cerco e ricerco nelle tasche laterali della mia biografia. Tutto quello che ho fatto e che potrebbe entrare in linea di conto per spiegare quel dolore bastardo che mi ha preso. E attendo l'assoluzione. Ti preeego assolvimi. E nel farlo dissolvi i miei peccati. Fanne nebbia, vapore acqueo, poi una pioggerellina leggera. La vescica di un uccellino che si scarica da 400 metri, cosa vuoi che sia, non la nota nessuno. Dissolvi i miei peccati, please!

Oggi, è andata così. Segue racconto.

Ho fatto un sacco di cazzate nella mia vita, okay. Espresse e delucidate come segue (spesso con dei “non” che incarnano la cazzata come negazione del suo opposto virtuoso: inizio però senza “non"): ho portato pesi fuori norma (sono un caso umano di “excess luggage”, avessi potuto fatturarlo...); ho filmato per troppe ore con telecamere troppo pesanti; ho preso troppe buche in automobile; sono finito in troppi fossi a bordo di jeep senza sospensioni adeguate; sono caduto troppe volte; ho dato testate pazzesche contro pareti larghe un metro; ho assunto posizioni antiergonomiche; ho dato green light a tick nervosi con buona probabilità partoriti da DPTS (disturbo post traumatico da stress); non ho bevuto abbastanza gin tonic al bar (dicono che aiuti, a scaricare...); non ho (ancora) finito il libro che sto scrivendo; non ho (ancora) finito il film che sto girando; non ho (ancora) figli; avevo addosso troppo peso quando, in Afghanistan (fosse stato soltanto in Afghanistan...), sono salito a bordo di quell'elicottero e lì ho sentito che qualcosa faceva crack nella mia schiena, ma cosa vuoi che sia?; non ho mai fatto joga (in reltà mi sono sempre fatto quattro risate pensando agli uomini che fanno joga, e mi sono sempre chiesto se si cambiano nello spogliatoio delle signore oppure se ne hanno uno tutto loro...); non ho fatto abbastanza saune, anche se ne ho fatte forse mille; ho dormito su terreni non favorevoli alla salute; ho fumato (fumo); ne ho fatte di tutti i colori pur di mandare due immagini due; ne ho fatte di tutti i colori anche quando nessuno voleva le mie immagini; ho spinto e trainato automobili in panne dentro villaggi e città presi a bersaglio dai razzi e dalle granate RPG; ho fatto finta di non accorgermene; e quando me ne sono accorto ho pensato che ne valesse la pena comunque. Anche l'ultima volta, quando non so perché, ma a furia di prendere colpi, e di girarmi e rigirarmi e di portarmi in giro quello che mi porto in giro sulle spalle, o cristosantissimo vedi come va il mondo ma mi è venuto un dolore che altro non esiste (per ora...).

Bene. Mi hanno infilato dentro un tubo (non è la prima volta...). E mi hanno guardato dentro. C5, C6, C7: sono le mie amiche del cuore. Le mie ragazze. I miei amori. Le mie meravigliose vertebre cervicali, tre vergini non più vergini da un bel po' di tempo che mi fanno compagnia. Si fanno sentire, quando ne hanno voglia. Non voglio esagerare, ma con questo dolore, signore et signori, posso dire di essere prossimo all'esperienza del parto. Almeno, così credo. Anche se, preciso, il dolore è situato in zona diversa. È tuttavia invasivo: cresce e si propaga come un innamoramento cominciato male.

Va tutto bene, ora. Piano piano rimettiamo a posto questo scheletro cocciuto e – lasciatemelo dire – leggendario. Sto a cuccia soltanto davanti al medico. Quieto quieto come un povero cristo davanti al prete e alla fortezza del confessionale. È un gioco, in fondo, anche questo. Dai per avere. Confesso tutto per ottenere l'assoluzione.

Continua pure come hai fatto finora, figliolo. Esercita, tuttavia, un po' di prudenza. Abbi qualche riguardo nei confronti della tua vecchia carcassa. 200 avemarie, 300 padrenostri.

Il medico, oggi, mi ha consegnato una frase strepitosa della quale gli sono grato: “il dolore va rispettato”. Come la paura, ho aggiunto io. Stessa cosa. Il dolore e la paura sono la stessa cosa. Vanno ascoltati. Dietro la cortina elettrica e pulsante che alzano trovi sempre una rivelazione. Il senso delle cose.

Il senso della vita. Anche quando, per viverla come ti piace, ti triti le cervicali (fossero soltanto loro...), ti frulli i nervi e fai purea di tutta quella meravigliosa e perfetta complicazione che gli sta attorno.

Siamo al mondo anche per esagerare: e per gustare lo spazio di manovra che l'esagerazione ancora ci consente. Vertigine, ora, breve, nell'assaporare il dietrolequinte di questa idea.

Se dovessi scegliere un autoritratto, sceglierei la fotografia che pubblico qui. Il dentro di me, C5, C6 e visto che ci siamo C7. 

Eravamo rimasti qui, con il Blog. A un passo dalle mie tre stupende vertebre. Che amo. E alle quali sono grato. Per il male che sanno farmi. E per tutto il bene che mi vogliono. Love is in the air...