Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

martedì 30 aprile 2013

Due branzini. E li rivoglio.

(c) 2013 weast productions


Ti scrivo. Ti piacevano questi racconti.

Primo.

Due occhi che mi guardano. Due pesci stesi su un fianco. Vicini come due amanti. O come due nemici finiti a terra all'ultimo sangue andato a segno. Due occhi sinistri, nel senso del contrario di destri. Due pesci sotto vuoto. E sotto braccio a un signore vecchio e fermo al posto di blocco della cassa al supermercato. Li tiene come altri tengono, sotto braccio, Le Monde Diplomatique o l'Herald Tribune. Consapevole. Di che cosa stringe. Del senso che gli danno, queste strette. Un libro prezioso portato via dalla biblioteca soltanto perché ti conoscono. Due branzini finiti alla Coop chissà come e, per vie traverse, in fuga di nuovo, appesi a un'apnea infinita che, nel prolungarsi, produce le prime allucinazioni. La mia, ad esempio. Guardatemi: ho una chiave appesa al collo, una penna nel taschino, fogli di carta nelle tasche e sigarette, accendini che basterebbero a bruciare la città. E un sesto senso nella testa che vi aggancia al radar e poi al mio sguardo. A me gli occhi: vuoti, i vostri, criiisto tenete duro, la cassa ancora, l'inflessibile cassiera, e poi fuori, forse, fuori troverete il guizzo che vi salva, con l'acqua che piove hai voglia se vi salva. No. C'è il suo sguardo, quello di chi vi tiene, che come un bianco d'uovo ingigantito cala stracotto su di me. No: state con lui. Stanchi, si può essere. Ma quanto.

Secondo.

Una signora di centottantanni. Dentro una cabina telefonica. Curva, cerca monete nel deposito della sua vita recente e passata. Un portafogli. Le sue mani. Fuori piove. I suoi capelli che lo dicono. Cerca. Piano. Cervello, concentrati. Vapore, sui vetri della cabina. Tempo trascorso, chissà quanto. Mi chiedo – un secondo, di tempo, un secondo – chi vorrà chiamare. E per dire che cosa. Forse cerca soltanto un riparo. E il cellulare. Ma per dire che cosa?

Terzo.

Notizie. Televisione. Sera. Lasciamo perdere. Non è la vita. Non quella vera. Avrebbero dovuto dare la notizia dei pesci che mi guardavano al supermercato. Stanchi. E raccontare che c'era una donna di centannipassati dentro una cabina telefonica con il vapore sui vetri.

Quarto.

Avrà 37 anni, lei. Lui, lascia stare. Lei fuma. Lui: fuma di più. Lei: bastardi tutti quelli che ho consociuto. Lui: capisco. Lei: bastardi. Lui: ne è pieno il mondo. Lei: mai più. Il cameriere porta i caffè.  Lui: fuma. Lei: fuma. Lei: cerco una storia diversa, vera, che abbia un futuro. Lui: un futuro. Lei: capirsi, esserci, l'uno per l'altra. Lui: complicità. Lei: sììììì, complicità, ecco... Lui: andiamo? Lei: dove? Lui: da me.... Lei: (qui iiiio non ho capito bene, perché è passato un moccioso col motorino a tubo aperto, ma sembrava, ci giurerei un) fottiti.

Quinto.

Paura. Ce la stanno mettendo tutti. Stampa inclusa. E, tanto per essere precisi, stampa per prima. Ci consegnano al film spazzatura di prima serata con una paura addosso che quello che vedremo ci mette il rimpianto per non vivere in un mondo uguale: dove qualcuno fa a pezzi qualcun altro, ma il cattivo lo trovano sempre e buonanotte. Buonanotte? Ci mandano a letto con l'ansia. Dormire? Un'impresa. Sotto il letto stanno, i cattivi. Ovunque. Siamo circondati. Stringere, stringere: le fila. Tirare, tirare: le redini. Sono fra noi, i cattivi, garantito: garantito da chi? Mattino seguente: c'è chi si sveglia e c'è chi non si è mai addormentato. Prime pagine: paura. Ci consegnano al resto (a ciò che segue: spettacolo, sport) con il sudore sulla fronte e sulla schiena e ovunque. E ci stanno mettendo, vedi come va il mondo, tutti in fila. A manina. Silenzio in prima fila, silenzio in seconda, silenzio nel loggione e in paradiso. Silenzio. Guardare, ascoltare. Leggere. Sempre più vicini, stretti insieme. Così ci vogliono, informazione inclusa, a battere i denti come bambini, pronti a fare e a accettare tutto.

Sesto.

Rivoglio i miei due branzini. Il loro sguardo, alla cassa della Coop. Quel vuoto di vita ormai assente che al confronto – al confronto – è un pozzo di vita. E diciamo pure, visto che si sta facendo tardi, di libertà.

Qui, questi racconti, ti piacevano. Ridevamo. Chissà lì?

martedì 23 aprile 2013

A mia madre, Gemma Grossi.

Gemma, Gianluca e Michele.


Sei alta sulle ali e leggera. Hai sganciato la tua zavorra in pochi attimi e senza fatica. Hai affrontato i primi venti con coraggio, quello che soltanto le donne hanno. Le madri. Subito hai imparato il volo, con l'istinto che ti ha sempre guidato. E ora, mamma, passi e ripassi fra le tue dita anelli di luce. E sei, finalmente, giunta all'ultimo piano del faro, dalla parte della vita dove ora sei. Dopo essere stata guida sempre. E ispirazione. Certezza. E guardiana infaticabile della nostra vita di figli, anche di quella di Plinio. Con il tuo sguardo, bellissimo, semplicemente dolce e indimenticabile.
Lo sguardo è silenzio: il tuo era fatto d'amore, d'intesa profondissima e d'intelligenza arguta, ironica e diretta. Di una consapevolezza solare.
Di questo tuo misterioso dono sono sempre stati, esteriormente, portatori i segni della modestia e dell'eleganza naturale.
Sei, oggi, nel mio sangue che scorre, e in quello di Michele, mio fratello. E di Ava, sua figlia, che ha compreso il balzo che senza troppa pena hai compiuto: lo ha capito respirando, trovandoti anche così nella sospensione momentanea e giocosa dell'aria che entra e poi esce. La vita che soltanto finge la sua costanza.
Ho steso una sottile rete di parole, per trattenere il tuo volo. Ho scritto, fino a che ho potuto, di te. E tu, fino a quando hai potuto, sei stata al gioco. Ora sei, in modo completo, nel primo chiarore di memoria che si sta facendo. Sarai, per sempre, in ciascuna parola che scriverò. Sei, tu, il peso che le mie parole portano, sei le reazioni che suscitano, sei la verità che raccontano. Sei in tutto quanto ti devo e non smetterò mai di darti. Amore, certo, non misurabile, non contenibile, infinito, e il senso profondo e dirompente della vicinanza: vera espressione dello spirito che si fa memoria. In chi resta vivo. E in chi, come te, è vivo ancora, in modo diverso. Sei tu, ora, Gemma, portatrice del mistero della vita e della morte che affonda le sue radici nell'essere umano. In lui soltanto. In te, mamma, ormai alta sulle ali, che ti sento vicina come sai che ti ho sempre sentita. E ancora di più.  

lunedì 22 aprile 2013

Martedì ti scrivo, garantito.

Ti scriverò martedì. Okay? Credo tu abbia altro da fare, ora.
Va' piano: qualche poliziotto spunta fuori sempre, da dietro un cespuglio.
Cosa gli diresti? Che la mandi a me, la multa?
Che parli con me?
Piano, tesoro, c'è traffico anche lì.
Lo so, ti piace contare le cose che vedi: le case, le finestre delle case.
Le (poche) antenne sulle case: ferri vecchi.
I camini sulle case.
Chi, dentro le case, ci vive, e magari ora
dorme.
Sii prudente, sei nuova del posto.
Io sono tranquillo. Sento come
finiscono, dentro i tuoi occhi,
spalancati senza stento,
le infinite immagini della vita.
Quante, cristosanto, quante.
Mai
viste
tante.
Fanne il pieno che vuoi,
non bastano mai,
anche quando uno ha tempo.
Tutto il tempo di questo mondo.
E dell'altro, se c'è.
Martedì ti scrivo: garantito.



venerdì 19 aprile 2013

Una indecifrabile trasparenza.

Di nuovo a tu per tu con quello che sai. E non puoi dire. Forse. O non vuoi.
Abituata alla resistenza, che affidi anche alle parole: le svuoti, furba, del peso che recano.
Le taci, dicendole.
Quante scoperte sai ancora compiere. Guardi da un vetro, oggi madido di pioggia,
solo schermo a tagliarti il vento
che travolge le cime degli alberi;
inquiete, come le tue dita.
Acqua, che scende dalla schiena di una ragazza
un bel pezzo di vita fa.
Le gocce si fanno piccoli globi
luccicanti e
rallentando la corsa
compongono le infinite alternative
della memoria.
Oggi - a quanti anni dai tuoi vent'anni? -
componi le lettere di innumerevoli parole:
le consegni, fingendo altro,
allo sbalordimento del vetro,
sul quale corrono, ma senza fretta vera,
gocce ora grandi ora meno,
gonfie o modeste. Rimbalzano.
Verso me.
Colme - colme, certo, e senza dubbio -
della indecifrabile trasparenza
della vita.
Vedi? Scrivo ancora.


Oro nero fra il sangue.

(c) 2013 weast productions
Reportage dalla Siria sulla raffinazione "artigianale" e a cielo aperto di petrolio greggio nell'est del paese. Pubblicato in versione italiana dal portale online di RSI e visibile QUI.

Due scatti.

Due miei scatti realizzati nel corso del 2012 figurano nel catalogo di Swiss Press Photo e nella esposizione itinerante di questo evento che segnala le migliori fotografie di fotogiornalisti svizzeri scelte dalla giuria fra quelle inviate da numerosi colleghi. Due scatti che ritraggono situazioni che hanno per protagonisti dei siriani. Esseri umani. Dedico l'onore che provo nel fare parte dei fotografi segnalati da Swiss Press Photo alle persone che animano i miei scatti. Lo dedico nel senso della testimonianza. E della memoria. Dedico questi scatti alla profonda umanità che ancora e sempre sopravvive in Siria. Una umanità quasi sommersa ormai dal dolore, dalla mattanza, dalla disperazione. Qualcuno, commettendo un errore dettato dal partito preso, vorrebbe negarla, questa umanità. Esiste. E continuerò a fotografarla. Costituisce, da sola - lasciata sola - la via d'uscita dalla guerra. Per quanto costi fatica credere che possa farcela, un giorno. Servizio del Telegiornale di RSI a cura di Valerio Realini sull'esposizione di Swiss Press Photo QUI.

martedì 16 aprile 2013

Nati per obbedire.

(c) 2013 weast productions

Oggi ho visto un parchimetro messo male. Sopra ci avevano attaccato un cerotto con scritto: “guasto”. Qualcuno lo aveva grattato via, spezzato in due: guardarci sotto per vedere se era vero, se stava davvero male. Stava male, posso testimoniarlo: al posto dei numerini riferiti al parcheggio, al posto della somma versata e – più importante di tutti – del conto alla rovescia digitale che ti dice quanta vita ti resta prima di prenderti una multa, sul display compariva una lunga serie di simboli insignificanti. Apparentemente insignificanti. In realtà, dicevano molto. Tutto. Dicevano: goditela. Goditi la vita con la tua macchina parcheggiata a sbaffo, goditi il tempo, ignoralo, dilatalo, bacialo, abbraccialo, fanne quello che vuoi, anche l'amore. Wow.
C'era un parcheggio libero, uno solo, un buco in una dentatura altrimenti perfetta. Mi sono fiondato, lanciato meglio di un sasso palestinese. Dentro in una manovra. E poi, respiro, profondo, oltre la cortina delle marlboro. Fiato dentro, fiato fuori. Sorriso. E, come dire, la quasi tenera compassione per il vigile ausiliario che oggi sarebbe passato di lì senza passare anche dentro la mia vita. Estranei, per una volta. Lui incapace di nuocere. Io troppo su un altro pianeta per poterlo anche soltanto minimamente odiare.
Aspetta. C'è una signora. Una signora incazzata. Nera. Non funziona mai niente in Ticino. Signora, guten Tag, che c'è? Parkeggio, kaputt.... Sì, signora, ja, gnaedige Frau, kaputt, si goda la giornata di sole, si tolga, se può, le scarpe, e scopra la città, per minuscola che sia, a piedi nudi: sentirà, leggera, salirle la sabbia su per le caviglie. Siamo al mare, signora, verstehen Sie?
Ho sbagliato. Sbagliato a parlarle. Lei aveva già acceso il radar e aveva visto, in me, l'avvicinarsi di un corpo ostile. Giuro, ero disarmato. Eppure, ne sono certo, dietro le sue pupille, il cristallino, la retina, il bulbo, lungo le diramazioni nervose del suo cervello, andava accelerando oltre la luce l'immagine di uno che aveva rubato i vestiti da un container della Croce Rossa e che in mano teneva non le chiavi della macchina ma una bomba. Una bomba a mano. Entschuldigen Sie, gnaedige Frau, einen schoenen Tag noch.
E via che vado.
Abbiamo tutti quella che chiamiamo la “coda dell'occhio”. Quella che vede quasi dietro di noi, diciamo di fianco. E cosa vedo? La signora che sistema con cura una manciata di monetine sul parabrezza, appena sopra le spazzole, così che non cadano.
Cristo.
Mi fermo.
Mi giro.
Zitto.
Lei: “fuer den Herrn Polizist”.
Nel caso fosse passato il poliziotto: pagava il parcheggio, uguale.
Okay, la signora aveva targhe d'oltre Gottardo.
Cambia qualcosa? Chissà... Non credo.
Ora sono aggrappato a una tazzina di caffè, con Natale il barista che si chiede che cosa abbia mai visto, oggi, dopo averne viste tante comunque. Aggrappato al caffè, okay? Sai che cosa penso? Penso che invidio i tunisini, gli egiziani, i libici e per quanto siano messi male davvero, anche i poveri siriani. Perché si sono scrollati di dosso il potere. Quello che anche quando non c'è – ad esempio al gabinetto, a letto, davanti a un parchimetro fuori uso  – te lo inventi. Te lo crei. Lo metti al mondo, come un figlio.
E come a un figlio, cominci a volergli bene. Quando non c'è, ti manca.
Siamo nati per obbedire. Meno faticoso che pensare.  

venerdì 12 aprile 2013

Superato, come la naftalina.

Domani sulla Regione nuova puntata del Senso del taccuino: "Superato, come la naftalina".  Qui di seguito il (solito) estratto:

"Finisce che non se ne parla nemmeno. Pietra sopra e avanti. Finisce che se qualcuno lo fa notare, passa per lo sfigato di turno. Che se uno ci costruisce sopra due ragionamenti, è un marginale.
In niente diverso dai mantelli di lana che un tempo uscivano dal lungo sonno estivo dentro una nuvola di naftalina, quando si usava ancora. Ecco, se parli di Afghanistan è perché sai di vecchio. Sei superato, amico, come la naftalina".

martedì 9 aprile 2013

Disegnando il blog.

(c) 2013 Donatella Luca

Donatella Luca, una lettrice del Blog, mi manda questo disegno, ispirato a una fotografia recentemente pubblicata. Lo riporto con piacere, anche se con ritardo, ringraziando la sua autrice.

giovedì 4 aprile 2013

Una Balena a Milano.

(c) 2013 weast productions

(c) 2013 weast productions

(c) 2013 weast productions





(c) 2013 weast productions

(c) 2013 weast productions

(c) 2013 weast productions

(c) 2013 weast productions
A Milano è stata inaugurata una esposizione visitabile al Museo del '900. Fra le opere esposte c'è "La Balena" di Giona Bernardi (insieme a un'altra sua creazione). Trovo entrambi i lavori bellissimi. La Balena è anzi straordinaria: trattieni il fiato, ti tuffi dentro la vita, li riapri quando l'acqua non ti ha ancora fermato e respiri. Capisci di poterlo fare. E scopri qualcosa che non dimenticherai. Se avete tempo, andate a Milano al Museo del '900 e chiedete della Balena. 

mercoledì 3 aprile 2013

La Merkel con la barba e quelli con la barba in costume.


La Merkel che s'incazza non è una notizia. E' sempre incazzata. La Merkel che si arrabbia perché le hanno fatto click davanti, click di fianco e click dietro mentre era calata dentro un body e/o costume da bagno e, dentro questa mise, si stava calando in vasca termale @ Ischia, è una notizia. Significa che la Merkel è umana. Tedesca, va bene, ma umana. Non dovrebbe prendersela: sarò di bocca buona, ma da vestita lascia presagire un peggio che en maillot de bain non si avvera. Non del tutto. Tiene duro. È quaaaaasi soda. Meglio dell'euro. Non sono sicuro che gli scatti siano davvero clandestini: troppo nitidi, troppo sicuri. L'umanizzazione del potere (attraverso la quasi nudità, la rabbia espressa ex post per la ciccia rubata e rivelata al mondo) è una vecchia storia. Che, forse, si ripete.

Ce n'è un'altra di storia che si ripete. Diversa. I suoi protagonisti, alla vista della Merkel in body, chiuderebbero gli occhi e chiederebbero probabilmente perdono a dio per la frazione di esperienza adiposa femminile involontariamente compiuta. Eppure, c'entrano anche loro. Vedi come va il mondo: a sera inoltrata sei lì che pensi alla Merkel. Eppure, in un moto d'orgoglio, e siccome stai scrivendo altre cose, ti ricordi di un passaggio letto in un recentissimo volume dedicato allo Yemen. Nel parlarne, l'autore presenta un palestinese, di nome Abdullah Azzam, che negli anni dell'occupazione sovietica dell'Afghanistan non faceva altro che

traveling to Europe and the US to recruit fighters for his war (quella – aggiungo – antisovietica). The US, eager to see the Soviets bogged down in their own Vietnam, allowed Azzam – e qui arriva il punto – to establish satellite centers across the country, in cities like Brooklyn, Kansas City, and Tucson. The broad-shouldered Palestinian in his Afghan cap was a tireless recruiter, screening videos and delivering speeches night after night. “Your brothers and sisters in Afghanistan need you”, he beseeched the uncertain crowds. Listening to Azzam, one jihadi recalled years later, “made me want to find a blanket and withdraw from the world.”

((da: The last refuge. Yemen, Al-Qaeda, and America's war in Arabia, Gregory D. Johnsen, W.W. Northon & Company Ltd., London, 2013, p.12)).

Anche questa, è una vecchia storia. Che oggi si ripete. Preciso: continua. Con una differenza: che sono riusciti (che bello lasciare in sospeso l'attribuzione di responsabilità....) a farci credere che non c'entra nessuno. Che tutto avviene perché al mondo ci sono quelli con la barba e quelli senza.

Vedi un po' come va, questo mondo. La Merkel in body e gli altri con la barba. Darei non so che cosa per vedere il contrario: gli altri in costume e la Merkel con la barba. Mi basterebbe un minuto. Ma chiedo troppo, lo so. 


martedì 2 aprile 2013

Quelli che per ascoltare Jannacci....

C'erano i 33 giri, quelli di mio padre. Poi le cassette, ascoltate fino a consumare il nastro. Quelli che per ascoltare Jannacci prendevano il 2 in matematica... Io ero uno di quelli. E ancora oggi ti ringrazio.
E poi, per fortuna, è arrivato Youtube, per sentirti e vederti. A memoria, Enzo, quasi tutto quello che hai composto. Quando impari a memoria le parole che un'altra persona ha scritto, questa persona forse (anzi: sicuro) non lo saprà mai. Ma tu capisci che quella persona non sarà mai sola. Nemmeno ora, che non c'è più. Sarà sempre qui. E proprio perché esiste quel capolavoro che è "La fotografia", che parla di tutto, con un dolore senza fondo, io di foto qui non ne metto. Non servono. Ci hai insegnato un linguaggio, Enzo, mordicchiato da un dobermann fin che vuoi, va bene,  ma è l'unico che valga la pena di essere usato. Ho aspettato un po', ma te lo volevo scrivere. 

Lo sconto, please!

(c) 2013 weast productions / g.g.

Il giornalista tedesco (ARD) Joerg Armbruster è arrivato in Germania, trasportato da un aereo con ICU (intensive care unit) a Stoccarda. La SZ (Sueddeutsche Zeitung) pubblica un articolo firmato da Sonja Zekri che non condivido del tutto (mi sembra scritto da qualcuno che in Siria o zone simili non c'è mai stato), ma tre passaggi desidero sottolinearli: 

1) "Finanzstarke Sender aus Amerika oder Großbritannien beauftragen inzwischen private Sicherheitsfirmen, die ihre Reporter beraten und begleiten. Aber diese Dienste kosten Tausende Dollar am Tag. Und es ist sehr die Frage, ob ein halbes Dutzend Bewaffneter bei der Begegnung mit überreizten syrischen Kämpfern mehr Sicherheit schafft oder die Eskalationsgefahr eher steigert".

Se ci siano uomini armati con i giornalisti britannici e USA non lo so e non posso confermarlo, non li ho visti finora. So però che le grandi TV e le grandi agenzie (Reuters, AP) inviano con i loro giornalisti/fotografi/cameramen dei "security advisors", vale a dire addetti alla sicurezza: si tratta di ex militari con l'incarico di farti tornare a casa vivo. Insieme a questi, mandano anche medici e paramedici, nel caso un giornalista o qualcuno dello staff rimanga ferito.


2) "Andere Medien, auch öffentlich-rechtliche Sender, gehen manchmal den umgekehrten Weg, und wenn es schlecht läuft, kann der Angriff auf Jörg Armbruster dafür auch noch ein Argument sein. Sie schützen ihre eigenen Leute und kaufen Beiträge von freien Journalisten, die auf eigenes Risiko nach Syrien reisen, oft ohne Mindestausrüstung wie Schutzweste und Helm, ohne Sprachkenntnis, ohne landeskundige Mitarbeiter, ohne Versicherung und manchmal ohne Erfahrung in Krisengebieten. Kriege sind Karrierebeschleuniger, gerade für Journalisten und Fotografen. Und das Outsourcing des Risikos ermuntert Einsteiger zu längeren Aufenthalten und waghalsigeren Einsätzen".

Vero. Ma non dipingerei i free lance come un esercito di sbarbatelli e francamente, se vai da solo, con tutto il materiale che ti porti appresso, a qualcosa devi rinunciare: un giubbotto antischegge e un casco pesano e non registrano immagini. A volte rinunci proprio a questi. In realtà, lo fai anche perché indossarli spesso di trasforma in un obiettivo identificabilissimo. Eccetera.

3) "Die britische Sunday Times, die Zeitung der 2011 in Homs getöteten Reporterin Marie Colvin, entschied sich zu einem radikalen Schritt: Die Zeitung vergibt keine Aufträge mehr an freie Journalisten in Syrien. Es sei keine finanzielle Entscheidung, sondern eine moralische, erklärte das Blatt. "Wir wollen kein weiteres Blutvergießen." Andere Medien, auch die SZ, halten es ähnlich: Sie schicken eigene Redakteure, die Gefahr und Ertrag abwägen. Ein Risiko, das zeigt der Fall Armbruster, bleibt".

Sulle decisioni "morali" dei vertici della stampa ho i miei dubbi.

Tutto questo, in una estrema sintesi che anticipa future riflessioni, per la cronaca. Non si lamenta nessuno. Se uno va in Siria (o da qualche altra parte, simile) lo fa perché ci crede. Certo, ci sono i giovani, quelli che lo fanno sperando di strappare un contratto decente a una testata. Guardano uno come me (ho 46 anni, ma non significa niente: mi sento un ragazzino....) dandogli, con le pupille, del pazzo. Soprattutto quando gli dici che tu un posto ce l'avevi ma hai mollato tutto per la voglia di raccontare il mondo. Ma non ci sono soltanto i giovani e, credetemi, nessuno "ci va alla cazzo" in un posto come la Siria, trovo anzi questa idea offensiva, volgare nei confronti di chi ci ha lasciato la pelle: ci sono tutti gli altri che ci vanno (a qualsiasi età, al posto di starsene seduti a una scrivania a rompere le palle alla gente) perché non è un lavoro, questo, è diverso. E' una passione. E' un amore dichiarato ogni volta. E' il sangue che ti scorre dentro. E' tutta la vita. 

Se vai in Siria, è perché non riesci a startene a casa a guardare la TV o a leggere i giornali. E poi vale la pena: ti fai quattro risate. Te le fai quando (se) torni: le testate giornalistiche (soprattutto quelle che i soldi li hanno, e li spendono, quindi le TV) sono capaci di chiederti lo sconto. Lo sconto, please! No, non "sono capaci": lo fanno. Te lo chiedono: ti chiedono lo sconticino. Così va il mondo. E' in mano ai burocrati, che decidono tutto. Anche come raccontarlo, questo mondo. E pace in terra. 

lunedì 1 aprile 2013

Le (nostre) radici in Medio Oriente.

"Old" Bob (Robert) Fisk ha scritto qualcosa che invito a leggere. QUI. Con tutti i ragionamenti del caso, che magari un giorno affrontiamo.