Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

domenica 31 marzo 2013

Auguri a un collega. E tanto rispetto.

Faccia da reporter esprime solidarietà e vicinanza al giornalista tedesco Joerg Armbruster, gravemente ferito ad Aleppo. Le agenzie parlano di uno "scontro a fuoco" apparentemente esploso mentre seguiva un gruppo di ribelli dell'FSA (dpa/AFP). Secondo lo Spiegel, Joerg sarebbe invece stato colpito dalle pallottole di un cecchino mentre si trovava a bordo di un'automobile non lontano da una base militare controllata dai soldati governativi. Joerg lavora per SWR, emittente regionale dell'ARD. E' stato soccorso e operato ad Aleppo e successivamente trasportato in Turchia. Dovrebbe rientrare presto in Germania per ulteriori cure. Lo Spiegel segnala che sono 20 i giornalisti uccisi in Siria dall'inizio dell'insurrezione, nel marzo del 2011, fra indigeni e stranieri.

Joerg Armbruster ha  65 anni. Tutto il rispetto due volte: per essere, alla sua età, ancora sul terreno e al fronte, e per essere andato in Siria a raccontare la storia. Perché è il solo modo per raccontarla davvero. Auguri, Joerg.

venerdì 29 marzo 2013

Il senso del taccuino.

Domani, sabato, nel Senso del taccuino sulla Regione: "Il morso malato della guerra". Qui di seguito il (solito) estratto:

La guerra dà alla testa. A chi la subisce, a chi la combatte. Anche a chi la osserva da lontano. Te ne accorgi, ma fai finta di niente. Inizia così: un sottile filo d'acciaio si insinua nel cervello spacciandosi per qualcosa d'altro: un fastidio, la nebbia lontana di un mal di testa in avvicinamento, l'interferenza sullo schermo radar dell'esistenza che ti ha sempre dato una mano nel tenere la rotta. Poi, esplode: il filo si fa incandescente, l'acciaio si scioglie e inizia a scorrere. E' troppo tardi per tirarsene fuori. La guerra ti ha preso: un morso malato, preciso. Coi denti infetti. Il veleno agisce sulla memoria, sulle categorie che fino a ieri (fino a un istante prima) ispiravano azioni e decisioni. agisce sulla nostalgia, sulla fantasia, sulle aspirazioni e sulle ambizioni. La guerra fa a pezzi il mondo nel quale hai sempre vissuto: te ne prepara uno nuovo, il suo, perfettamente sostitutivo e funzionante. Dentro questo mondo, gli esseri umani ricominciano a vivere. Chi li osserva dall'esterno si chiede come possano farlo. Possono: lo stanno facendo. E quindi ci chiediamo, da fuori, come possano uccidere, tirare avanti, crederci ancora che con la guerra si possa ottenere un risultato, perché non si fermano tutti e basta? 

giovedì 28 marzo 2013

Giona.





Giona Bernardi mi ha mandato questi disegni: hanno una storia che un giorno, se lo vorrà, sarà lui a raccontare. E' un grande artista. Il 4 aprile il Museo del 900 a Milano (accanto al Duomo) presenterà la sua "Balena": un'opera che racconta la vita. Quando guardi la realtà ci finisci dentro. Milano, Museo del 900, 4 aprile, a partire dalle 18.30. 

Se qualcuno li sente....

(c) 2013 weast productions / g.g.
Questa sera su RSI 1, Falò, dalle 21 e qualcosa, ma sicuramente nella parte finale, mio reportage dalla Siria, dedicato a chi, dentro quel paese, cerca ancora di farsi sentire da noi che ne stiamo fuori.

mercoledì 27 marzo 2013

Non sono (più) nemmeno cifre.

(c) weast productions / g.g.

Domani sulla Regione reportage dalla Siria. Qui di seguito il (solito) estratto.

Lasciare che i suoi occhi portino al fondo. Com'è bella, anche ora. Proprio ora. Le chiedo in silenzio di concedermi la metà di un respiro per illudermi che il suo mondo sia intero, a posto: è così strano incontrarla dentro questa casa abitata da comandanti ribelli e da giovani guerriglieri.
Parlami, eccomi sulla lunghezza del dolore che incontrerò ovunque in questi giorni. Così lontano, credimi, dal posto da cui provengo. Eppure no: c'è un solo dolore. E ora parlami, sono pronto.
Lei mi parla. Di suo figlio morto ammazzato a ventidue anni dalla pallottola di un cecchino. Mentre stava caricando su un'ambulanza il corpo di un compagno di battaglia. Il cannocchiale, il petto del ragazzo, la croce perfetta nel mirino, il colpo. Ventidue anni che se ne vanno con sei litri di sangue, e forse anche meno. Una madre impazzisce alla morte di un figlio. La sento sui palmi delle mani questa follia, una corrente elettrica che si insinua ovunque. 

martedì 26 marzo 2013

Meglio morire (se proprio si deve) pettinati.

(c) 2013 weast productions / g.g.
Questo ragazzo si chiama Hani. Sono due anni che con la sua telecamerina documenta l'insurrezione in Siria. Dal suo punto di vista, che è quello di uno che crede nella rivoluzione, nella necessità di spazzare via il regime. La maggior parte delle immagini che arrivano alle televisioni occidentali (e non soltanto) dalla Siria, sono girate da ragazzi come questo. Hani si sta guardando allo specchietto: lo specchietto laterale di un'automobile. Se devi morire oggi, meglio morire pettinato. Sono giovani, gli andrebbe di fare quello che fanno i giovani nel resto del mondo (non tutto, si capisce). Eppure quelle immagini che questi ragazzi ci inviano, la stampa ufficiale continua a etichettarle così: "non possiamo verificare l'autenticità di questi documenti". Uuuhhh. Sento puzza di ipocrisia. Basterebbe dire: "queste immagini sono girate da qualcuno che aderisce alla rivoluzione". Le bombe e i mortai restano bombe e mortai comunque. Sono immagini autentiche, anche senza l'ISO occidentale stampato sopra. Mostrano, soltanto, una parte del tutto. Ma la mostrano. Non mi stancherò mai di ripeterlo: se volete verificarle, andateci di persona. Hani mi ha detto una cosa importante: vorrebbe inviare tutta la sua documentazione sulle bombe, sui morti, sui feriti, sulle case a pezzi, sulla vita sospesa alla Commissione d'inchiesta per i crimini in Siria dell'ONU. Se qualcuno della commissione mi legge, mi contatti pure, fornirò l'indirizzo del ragazzo. Stanno facendo, lui e gli altri, un grande lavoro, anche se parziale, svolto dalla loro parte del fronte. Ma è importante. La stampa occidentale li snobba. Il mio invito è a prenderli sul serio, invito rivolto anche alla commissione ONU. Niente riflettori, okay, niente alberghi con la moquette, niente conferenze stampa, niente studi TV. Eppure, l'esperienza di un archivio tenuto insieme da una precisa e oggettiva ostinazione. Vuoi mettere?

lunedì 25 marzo 2013

L'emergumeno e la realtà.

(c) 2013 weast productions / g.g.

Oggi sono di poche parole, le tengo per qualcosa d'altro che sto scrivendo. Due cose tuttavia: una signora dai bicipiti grandi due volte i miei che mi dice, senza alludere né ai suoi muscoli né tantomeno al sottoscritto (me lo auguro, stavo bevendo un caffè...): "una donna deve sapersi difendere dagli emergumeni". EMERGUMENI: ha detto così. Mi sono piegato in due dalla risata che mi ha preso. Se di fronte a un emergumeno vero mantiene lo stesso involontario senso dell'umorismo, alla signora i bicipiti non servono. Lo stende uguale. Seconda cosa: questa foto. Siria, Est, ragazzino, solo. L'attesa. Va bene come titolo? O l'angoscia? E' vero che se guardi troppo la realtà, ci finisci dentro.   

sabato 23 marzo 2013

Giornalista, ma senza tessera.

(c) 2013 weast productions / g.g.


Okay, I am out. Respiri e stai da dio. Le immagini ci sono. Tu ci sei, pure. Massimo qualche ora dopo, non vedi l'ora di ritornarci. Nel mio caso è la Siria, ma è uguale per qualsiasi altra parte del mondo dove si muore. E si sopravvive. E si combatte. E si fanno anche tante cazzate. In nome della libertà, da una parte. In nome di che cosa, dovrei dire della dittatura? Della dittatura, va bene, dico della dittatura intesa nel senso ormai del male minore per alcuni siriani (ma senza che il confronto sia mio), dall'altra parte. Qualcuno dirà "l'adrenalina". Palle. Non c'è solo questa, che scorre a fiumi, garantito. Altri diranno: l'avventura: se fosse tutto raccontabile (senza compromettere la complicità di aiuti indispensabili, voglio dire), ce ne sarebbe - garantisco - per un film, anche e forse soprattutto questa volta. No: è che ti senti vero, ti senti te stesso soltanto quando capisci che potresti anche non sentirti più, nel senso di non esserci più. Da un momento all'altro. 
Voglio scriverlo pubblicamente, per quel poco che conta e per quel nulla che interesserà i lettori: ho deciso di disdire la mia tessera di giornalista. Sono affiliato a Impressum attraverso l'Associazione ticinese dei giornalisti. Ricevo regolarmente delle mail verbose in cui si annunciano sedute plenarie dedicate a una infinità di trascurabili superficialità burocratiche, messaggi in cui si parla un linguaggio che non capisco, lontano dal mondo e dalla realtà. Ricevo un sacco di trascurabili parole che non hanno nulla a che fare con il giornalismo. Con la realtà. 
Disdico la mia affiliazione all'albo dei giornalisti paganti perché è anche questa stampa (per carità, tutta, non solo quella domestica, diciamo ticinese ma non solo, elvetica, vai...) a recare la responsabilità cospicua di ciò che si sta consumando in Siria. Una stampa che ha abdicato al suo dovere meraviglioso. 
Voglio ricordarlo: quando, a partire dal marzo 2011, iniziarono a giungerci le immagini delle manifestazioni pacifiche da Deraa, da Deir Ezor, Homs, Hama e da altre città Siriane, quando i video amatoriali girati da giornalisti cittadini coraggiosi iniziarono a mostrarci l'esercito siriano che sparava sulla gente disarmata in protesta, che cosa ha fatto la stampa pagante? Ci ha messo un bel sottotitolo, a queste immagini: "non possiamo verificare e garantire la veridicità e l'autenticità di queste immagini". Come a dire: sono inventate. Li abbiamo scaricati, i giovani pacifisti della Siria. E oggi siamo dove siamo: siamo a quello che ho visto. Con tutti - molti, okay, confratelli, a cercare ora l'islamista radicale, il figlio di O.B.L. fra i giovani che si sono ritrovati fra le mani un'esistenza rotta e un Kalashnikov. E gli altri, e la maggioranza? Ecco la censura. L'autocensura.
Bene: ho pubblicamente detto (scritto) quello che penso dei vari organismi internazionali e i loro interpreti con la febbre della ribalta (non mi sembra di avere risparmiato nemmeno l'ONU, la Svizzera) e ora mi dissocio dalla categoria pagante dei giornalisti. Così come mi sono sempre (ed è verificabile) dissociato dal sottotitolo di cui sopra: "immagini non verificabili". Ho sempre detto: se non potete verificarle da seduti, andateci di persona, cristo.... 
Avessi trovato, in una delle tante mail che ricevo dall'associazione dei giornalisti a cui sono iscritto, una frase (una sola) che indicasse una riflessione sulla responsabilità della stampa (anche della nostra) circa il disastro siriano, avrei potuto ripensare alla mia decisione ormai presa. Ci avessi trovato anche soltanto una frase di solidarietà con i ragazzi (e le ragazze) che ogni giorno mettono in rete decine e decine di minuti di documentazione dei combattimenti e del sangue che scorre (da entrambe le parti, va detto), avrei frenato, capito. 
Non l'ho trovata. Lunedì 25 marzo mi dissocerò, ufficialmente, con lettera raccomandata. Per rispetto delle persone che ho incontrato. La cui storia puoi davvero soltanto raccontare se sei libero: dalle mail, dalla burocrazie e dall'amnesia disinvolta che ha preso chi, invece, all'occhio dovrebbe stare. Non importa a nessuno, okay. O forse mi sbaglio?

giovedì 21 marzo 2013

Due bambini sotto terra.


(c) 2013 weast productions / g.g.

(c) 2013 weast productions / g.g.

C'è questo articolo del vecchio Bob Fisk, leggibile QUI. Si sofferma su un nuovo fenomeno in Siria: traffico di antichità. Confermo: la gente comincia a scavare. Bastano due palate e trovi la Storia, soprattutto nelle zone vicine all'Iraq, attraversate da un Eufrate che scorre con lo stesso ritmo millenario, indifferente, credo, o ormai rassegnato, alle disavventure degli umani. Si scava per contrabbandare tesori. Nulla di nuovo. Di qualcosa si deve vivere. Servono, i soldi ricavati, per lucri privati, ma non soltanto: anche per fare arrivare in Siria ciò che il mondo si è scordato di inviare: e non parlo di armi. Aiuto per la gente. Anche questo. Vorrei segnalare che la popolazione rimasta non ha smarrito il senso della solidarietà. Per quanto ci stiano provando tutti a spacciare queste persone per poco umane, anzi: vogliamo dirlo? Diciamolo: per bestie. Sbagliato. Loro intanto scavano. Sta tutto nella terra, in Siria: i tesori del tempo. Il sangue che vi cola. I morti di queste due fotografie: il padre della ragazza china sulla tomba, ucciso mentre combatteva a Deir Ezor (pochi chilometri di distanza dalla scatto) e i due bambini finiti sotto i mortai che cadono tutti i giorni nella zona nella quale con questa gente ho condiviso giorni (seconda foto). Due bambini sotto terra: tutti zitti. Due vecchie ciotole trafugate: scandalo! Fate voi, se ancora ne avete voglia. 

Le mie calze bucate.

(c) 2013 weast productions
Le mie calze bucate sono sempre meglio di una t-shirt bucata. Se ti sparano in un piede, ce la fai. Se ti sparano alla maglietta, quasi sicuro che no. Le mie calze bucate non mi fanno arrossire quando mi tolgo le scarpe e me ne sto seduto per terra a gambe incrociate, fra persone che sono venuto a vedere da lontano. Sono il segno della fatica. E delle poche cose che uno si porta con sé. Le mie calze bucate sono come i cerchi sul tronco di un albero che ne svelano l'età, che non gli daresti mai. Le mie calze bucate sono il contachilometri dei miei piedi, distanze macinate in silenzio. Le mie calze bucate valgono più di qualsiasi tessera plastificata con scritto sopra "Stampa": te la fanno strapagare affinché tu abbia il diritto (ufficiale) di dirti giornalista. Che balle infinite... Le mie calze bucate valgono più di ogni accredito. Parlano tutte le lingue del mondo. E sono le benvenute ovunque. Suscitano sorrisi, comprensione, divertimento, domande. Come te lo sei fatto quel buco che sembra uno sbadiglio? Per starvi dietro, ragazzi, incasinati come siete in questa Siria che sto raccontando lentamente, giorno dopo giorno, con qualche immagine. Per strapparla ai luoghi comuni, ma chi ci riesce? Le mie calze bucate mi sono valse altre due calze non bucate. Bianche, di cotone. Me le ha date una ragazza siriana, fuggita dalle bombe con tre sacchi di plastica: dentro aveva tutto quello che restava della sua vita. Okay, la ragazza ha preso le calze, le ha tirate per la lunghezza (ho il 44 e mezzo....) e me le ha date. Profugo, anch'io, fra i profughi. Non gliel'ho detto. Ma, in quel momento, ho capito che è così: nessuno mi crederebbe se gli dicessi che sono un profugo svizzero. Quindi non lo dico a nessuno. Mi limito a pensarlo. E a rivendicarlo, con le mie calze bucate.

mercoledì 20 marzo 2013

La consapevolezza resistente.

(c) 2013 weast productions / g.g.

L'uso di armi chimiche in Siria rappresenta per Gran Bretagna e Stati Uniti, una "red line", un discrimine, una invalicabile linea rossa. Che dovrebbe delimitare due spazi: ciò che sta di qua e ciò che sta al di là di questo artificioso e arbitrario confine. Dopo il presunto attacco con un non bene identificato gas ieri (martedì 19 marzo) nei pressi di Aleppo si sono alzate (non tante) voci preoccupate, da Washington a Londra. Non si capisce nemmeno bene che cosa farebbero, le due capitali, nel caso in cui questa linea venisse oltrepassata. Probabilmente la stessa cosa che hanno fatto finora: stare a guardare. Guardare, ad esempio, la storia di Saddam Al Hammad, nato nel 1981, cittadino di Mohassan, nei pressi di Deir Ezor, Est della Siria. E' tornato a casa così, lo stesso giorno in cui l'ho fotografato: si è fatto quasi due anni di carcere per avere partecipato alle proteste pacifiche a Deir Ezor. Lo hanno rilasciato, insieme ad altri prigionieri, in cambio di un generale catturato dall'Esercito libero siriano. E' tornato a casa con il fisico devastato. Per le torture, che descrive con precisione oggettiva. E per le condizioni di detenzione, dentro celle affollate da decine di persone quando lo spazio è appena sufficiente per due o tre. Parassiti e infezioni hanno divorato la pelle di Saddam. I piedi, ancora gonfi, portano i segni delle torture e delle bruciature. La posizione in cui è stato fotografato è quella che i prigionieri erano costretti a tenere nella cella. Tutto questo sta al di qua della "red line". Quindi è tollerato da Washington, Londra e da tutte le altre cancellerie. Tutto questo - lo so dalle interviste che ho condotto con altre persone - veniva praticato in Siria ancora prima dell'inizio delle proteste nel marzo del 2011. Andava bene a tutti: si sapeva, ma si stava zitti. E ancora oggi si sta zitti. Perché è un abisso che si spalanca al di qua della frontiera che ipocritamente la politica - la Realpolitik - ci chiede di accettare. Rifiutare questa ipocrita visione non dico del mondo, ma della vita, è la sola e indispensabile testimonianza di consapevolezza resistente di cui ci possiamo fare interpreti. Di cui dobbiamo farci interpreti.

giovedì 14 marzo 2013

Il senso del taccuino.

Sabato nel Senso del taccuino sulla Regione: Una scritta col sangue in un ospedale da campo. Mio reportage dalla Siria. Qui di seguito il (solito) estratto:

C’è un dottore nell’est della Siria che se lo guardi, anche senza chiederglio, capisci che non dorme da una vita.  E’ responsabile di un ospedale da campo, improvvisato dentro una scuola abbandonata. Lavora giorno e notte nel vilaggio di Mohassan, a venti chilometri da Deir Azor, a novanta chilometri dall’Iraq. Per arrivarci mi sono lasciato alle spalle un viaggio massacrante, otto ore buone. Abdulmalik Al Fannag è un chirurgo cardiovascolare che oggi opera di tutto : dai giovani guerriglieri feriti ai civili che non ce la farebbero a raggiungere la Turchia, gli è capitato di occuparsi persino dei soldati regolari, racconta. Non so se è vero, ma  il dottore ha lo sguardo sincero quando lo dice. Lo incontro nel suo ospedale, ma ospedale si fa per dire. Sta cercando di capire se la gamba di un ragazzo colpita dalle schegge di un razzo può ancora essere salvata. 

(c) 2013 weastproductions / gg.

giovedì 7 marzo 2013

La svolta.

(c) 2013 weast productions.
Il fratello di Mohammed El-Ghanam chiede la liberazione dell'ex colonnello durante una protesta davanti all'ambasciata svizzera al Cairo. 
Domani, nella Regione, la notizia e i retroscena di una vera e propria svolta nel caso El-Ghanam. Qui una breve anticipazione:

C'è una clamorosa svolta nel caso di Mohammed El-Ghanam, l'ex funzionario del Ministero degli interni egiziano, rifugiato politico in Svizzera e internato dal 2007 nel carcere di Champ-Dollon a Ginevra. Una perizia medico-psichiatrica, la prima realizzata con l'interessato presente, smentisce la sua pericolosità per la Svizzera, la sua popolazione e i suoi interessi all'estero, in sostanza l'identikit all'origine del suo internamento. Il documento, di cui possediamo la versione integrale, formula inequivocabilmente la necessità di scarcerare El-Ghanam e di curarlo in un istituto psichiatrico normale. La decisione della Corte d'appello del Canton Ginevra è prevista “fra non meno di due mesi”, spiega Pierre Bayenet, avvocato difensore dell'ex colonnello, che aggiunge: “di fronte a questa perizia, la Corte non potrà opporsi alla scarcerazione”.  

mercoledì 6 marzo 2013

Come un carro armato su un tamburo di latta.

C'è una novità nel caso Al-Ghanam e la comunico in esclusiva: due psichiatri sono riusciti a incontrare il rifugiato politico in Svizzera e ex colonnello egiziano nella sua cella nel carcere di Champ-Dollon. La direzione del carcere ha così accettato, dopo essersi a lungo opposta, che i medici vedessero il prigioniero nei suoi pochi metri quadrati: lui si è sempre rifiutato di scendere nel parlatoio.
Ebbene: la novità è che gli psichiatri ritengono che El-Ghanam possa essere accolto in una struttura psichiatrica normale, vale a dire non sorvegliata, non a regime semicarcerario. El-Ghanam è in prigione da sei anni senza una pena da scontare: è in regime di internamento perché ritenuto pericoloso per la Svizzera e la società elvetica. Weast Productions si è occupata di questo caso fra l'altro con un reportage investigativo e un servizio al TG di RSI (vedi post sotto: "Il colonnello sepolto vivo"), dimostrando più di un aspetto che in questa vicenda suscita inquietanti interrogativi (servizi segreti svizzeri, polizia ginevrina, giustizia, Consiglio federale, ecc.)  e denunciando la plateale violazione dei diritti umani da parte delle autorità giudiziarie ginevrine e anche del Consiglio federale che ha sempre scaricato il barile sulla città di Calvino. La conclusione degli psichiatri, per quanto tardiva, potrebbe segnare una svolta. Da subito, tuttavia, smonta l'impianto giudiziario che ha tenuto in carcere un uomo per quasi sette anni, mettendolo sotto chiave, meglio: sotto terra. Perché? Pericoloso? Per la Svizzera? Per la popolazione? Per i suoi politici? Che strano sapore ti lascia in bocca questa storia. Un po' quello di uno stato che passa sopra, quando gli pare, ai diritti umani: come un carro armato su un tamburo di latta. Alcune risposte nel reportage che Falò ha messo in onda qualche tempo fa e che ha forse contribuito, insieme agli sforzi dell'avvocato ginevrino del colonnello Al-Ghanam, Pierre Bayenet, alla svolta che Faccia da reporter anticipa.

Notizia per la stampa: domani alle 17.00 al palazzo dell'ONU a Ginevra ci sarà un "side-event" dedicato a Mohammed Al-Ghanam, con la partecipazione, fra gli altri, dell'avvocato Pierre Bayenet, del rappresentante svizzero della Missione CH all'ONU, ecc. L'evento è organizzato dall'organizzazione Nord-Sud XXI. L'evento è - PURTROPPO - aperto soltanto ai giornalisti. Almeno voi, colleghi, andateci!

venerdì 1 marzo 2013

Il senso del taccuino.

(c) weast productions 2013
Domani, nel Senso del taccuino sulla Regione: "La vita ritrovata di Giles Duley". Qui di seguito il (solito) estratto:

Nemmeno lui crede di potercela fare. Sente la vita andarsene, piano piano. Ha l'impressione di galleggiare. Allora, è questa la morte, è così che si muore? Tieni duro: cinque minuti, dieci minuti ancora. I rotori dell'elicottero Black Hawk provocano un frastuono infernale. I paramedici a bordo si sgolano per comunicare con il ragazzo che hanno appena caricato, disteso su una barella da campo. Quello che resta di lui. L'elicotterro, decollando, ondeggia, solleva sabbia e polvere nella campagna appena fuori Kandahar, Afghanistan. Hang tough, buddy! Tieni duro, amico. Il ragazzo è un fotografo britannico di quarant'anni. Quindici minuti prima era saltato su un IED, un ordigno improvvisato nascosto sotto terra da Talebani e destinato ai soldati americani in pattuglia. E' toccato a lui. L'esplosione gli ha strappato un braccio e due gambe. Hang tough buddy! Dieci minuti di volo e l'elicottero atterra all'ospedale militare americano di Kandahar. Am I going to live? Sopravviverò, chiede il ragazzo sulla barella? Certo, ce la farai. Love you buddy, ti voglio bene amico, gli dice il paramedico prima di rialzarsi in volo: ci sono altri corpi da recuperare in mezzo alla guerra. Taglio. Nuova scena.