A richiesta di molti lettori e lettrici del blog pubblico nella sua integralità l'articolo apparso sabato 3.11 nel Senso del Taccuino. Così sappiamo tutti di cosa parliamo. Eccolo:
Quella guerra pulita
che piace all'Occidente.
In guerra l’essere
umano diventa trasparente. Lo puoi osservare. Leggere. Lui lascia
fare. In una situazione normale, di pace, uno ti direbbe: “cos'hai
da guardarmi, toglimi gli occhi di dosso”. In guerra lo sanno tutti
che non c'è nulla da nascondere. Puoi dissimulare, mentire,
manipolare: nasconderti, no. L'uomo trasparente non è più calato
dentro una società le cui regole era abituato (chi più chi meno) a
rispettare, a fare proprie, a dare per scontate. L'uomo trasparente
non ha più legge: in guerra non c'è una legge da rispettare o da
fare rispettare. L'uomo trasparente è l'immagine più realistica che
riusciamo a cogliere con gli occhi: immagine di noi stessi. Quella
che rincorriamo e ricerchiamo nei libri di storia, in quelli di
filosofia, nella finzione, nei polizieschi, nelle trame d'amore e
d'avventura, nell'orrido, nei serial
killer. Cerchiamo, tutti, questa
trasparenza degli altri nei quali scoprire, riconoscere e accettare
(ma questo è un passo ben più arduo) noi stessi. Eccolo li',
davanti a noi, l'essere umano improvvisamente ridotto ai termini
minimi della sua esistenza. La guerra è la manifestazione
dell'estremo che si esprime non nelle categorie a noi (fin troppo)
care del bene da una parte e del
male dall'altra, utilizzate per
disinnescare l'ordigno che abbiamo dentro. La guerra genera la
sovrapposizione spaziale e temporale dell'estremo: il bene e il male
fusi insieme dentro la stessa persona nello stesso istante. In guerra
osservi individui compiere atti di annientamento totale dell'altro; e
vedi individui incarnare azioni di dedizione assoluta all'altro.
Capita – terzo e ultimo e più imbarazzante scenario – di vedere
lo stesso individuo fare entrambe le cose. Come la mettiamo?
Sulla guerra esiste una
abbondante letteratura: da Omero ai reporter contemporanei. Mi sono
portato due libri in valigia, di Anthony Loyd (The Times) e Chris
Edges (New York Times e altri). Titoli (traduco dall'inglese): “La
mia guerra è finita, mi manca tanto” e “La guerra è una forza
che dà senso alla nostra vita”. Ohohoh. Spalancano entrambi una
finestra che dà su una voragine. Il baratro senza fine che è la
condizione umana. Lo fanno scegliendo un titolo che volutamente evita
la fin troppo scontata deprecazione della guerra. Al contrario:
ammettono di essere soggetti a una forma di dipendenza, che nei loro
volumi spiegano con dovizia di particolari. Nessuno dei due ne parla,
ma dalla lettura si conclude che la dipendenza non è generata
dall'adrenalina, dal sangue, dalla brutalità, dai macelli dell'ex
Jugoslavia, del Sud America e del Medio Oriente. Troppo facile:
significherebbe ribadire un cliché senza fondamento. Credo invece,
da una ottica mia, che si tratti di dipendenza nei confronti
dell'uomo trasparente che la guerra rivela.
Incontro due ragazzi
siriani, con lo stesso nome: Mustafa. Mustafa numero uno mi confida,
senza giri di parole, che agli Alawiti (sciiti della stessa setta
religiosa del presidente Assad) va tagliata la testa. E che gliela
taglieranno, perché hanno vissuto per quarant'anni a spese dei
sunniti. Il ragazzo, che è stato torturato brutalmente dal regime
(“i miei organi genitali sono stati massacrati”), spiega che
combattere, per lui, significa sacrificarsi per la libertà e i
diritti di tutti. Un tagliagole democratico? L'altro Mustafa mi
spiega che, quella siriana, è una guerra di religione: l'obiettivo è
la costruzione di uno stato islamico. Continua, tuttavia, aggiungendo
che è anche una rivoluzione dei poveri contro i ricchi, degli
sfruttati contro gli sfruttatori. Estremista islamico o Robin Hood?
Ho l'impressione che
questi ragazzi siano capaci di tutto: dell'atto più efferato così
come dell'azione più altruistica. Che cosa li ha messi in questa
posizione? Il loro passato (breve: hanno 20 anni), la propaganda,
l'indottrinamento? Forse. E' stata, soprattutto, la guerra. Quella
vera, non quella che ci piacerebbe venisse combattuta. La guerra
sporca, sanguinaria, crudele e terribile. Non quella a cui chiediamo
di rispettare (di incarnare, addirittura) le regole della ragione e
della pietà, di rispettare la legge. Per tornare ai libri di Hedges
e Loyd: descrivono la guerra com'è, un assordante, terrificante
scatenamento.
Questa è la guerra. Il resto, tutto il resto, è come ci piacerebbe
che fosse, come ci fanno credere che possa essere: regolata, quasi
pulita, rispettosa, intelligente, onesta. Umana. Sì: umana. Se
qualcuno mi chiedesse qual è la bugia più clamorosa prodotta
dall'epoca post-moderna, risponderei: la balla della guerra umana.
Meglio: l'idea che ci possa essere una guerra umanamente accettabile.
Anzi, tolgo i congiuntivi: l'idea che c'è una guerra accettabile e
una, invece, che non si puo' accettare. Una guerra guardabile e una
inguardabile. Una guerra legale e una illegale. Quindi, da perseguire
con la legge.
Lo scrivo: sono
contrario alla Commissione d'inchiesta dell'ONU sui crimini di guerra
e contro l'umanità commessi in Siria. E per spiegarmi la faccio
breve. Sono contrario perché: 1. Una commissione di questo tipo
nasce dal presupposto sbagliato: che ci siano o possano esserci
guerre combattute senza commettere crimini (solitamente sempre “le
nostre”, mai quelle degli altri). 2. E' un'iniziativa parziale e
frettolosa: il mondo è stato a guardare le prime espressioni
pacifiche della rivoluzione in Siria senza fare nulla, anzi, sperando
che il regime di Assad ne uscisse indenne. Abbiamo messo in dubbio,
dall'inizio, l'autenticità dei filmati che provenivano dalla Siria,
con un marchio quasi infamante: “non possiamo garantirne la
veridicità”. Come
dire “sono arabi, non ce la
raccontano giusta”. Abbiamo lasciato che, in Siria, la gente
precipitasse nel baratro, ben sapendo quali sarebbero stati gli
scenari a venire. A guerra (a macello) in corso, decidiamo quindi di
metterci una pezza: così una guerra non si combatte, signori, non va
bene, state esagerando, ci date fastidio e vi puniremo.
3. Il mondo, in Siria, c'è dentro
fino al collo. L'Occidente, il Medio Oriente, l'Oriente. Ci siamo
dentro tutti. Ciascuno con la propria interessata visione di quello
che verrà. Ciascuno con le proprie bugie. E le proprie armi. Da
piazzare. Da vendere. Con i fondi da stanziare (ai ribelli, al
regime). E le parti da sponsorizzare.
Anche la Svizzera ci
mette la sua, di pezza. In Siria si lanciano granate a mano prodotte
nella Confederazione. L'Inchiesta federale ha concluso – poteva
andare diversamente? - che erano state vendute in buona fede agli
Emirati Arabi Uniti (l'avete data, da Berna, un'occhiata alla
situazione dei diritti umani negli
Emirati?) e che chissà come ora
esplodono e fanno a pezzi la gente in una guerra vera. Il detersivo
lavapiùbianco elvetico (prestato alla comunità internazionale
salita sulle barricate di un riscoperto umanesimo) si chiama Carla
Del Ponte. La sua missione, svolta a fianco di tre colleghi, parte
condizionata da troppe zavorre. Da un “adesso arrivo io” fuori
posto e stonato di fronte al massacro in corso, una febbre della
ribalta celebrata, senza riserve, dalla stampa (ho sentito paragoni
quasi biblici, mi auguro che la signora Del Ponte abbia provato
imbarazzo). Dal coinvolgimento attivo sullo scenario siriano di buona
parte dei paesi che sponsorizzano la Commissione d'inchiesta ONU. Dal
silenzio dell'ONU e del mondo su troppe altre guerre etichettate come
“giuste” o “legali”, al punto da ignorare i massacri compiuti
dai soldati occidentali, dai paramilitari delle ditte di sicurezza
straniere (contractors),
il cieco pressapochismo dei droni (aerei senza pilota) in Iraq,
Pakistan, Afghanistan, Yemen, eccetera. E, per finire, dalla
convinzione opportunista e ipocrita che ci possa essere (ci sia,
“c'è!”) una guerra che non sia un crimine contro l'umanità. Una
guerra fatta come si deve. Pulita. Organizzata. Accettabile.