Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

martedì 31 luglio 2012

Se Berna mi legge.

60mila franchi. Con ricevuta, si capisce. La Svizzera ha dato il suo contributo alla rivoluzione siriana. Aspetta: a una o piu' riunioni segrete (quanto piace questo aggettivo a Berna) tenutesi a Berlino. Protagonisti i membri del CNS, il Consiglio Nazionale Siriano, l'organismo che dovrebbe incarnare le aspirazioni di chi in Siria vuole il cambiamento. Non ho le prove e sparo a zero, ma con questi soldi (qualche centesimo sarà stato pure mio, gli altri vostri e di tutti) avranno pagato una camera d'albergo di un rappresentante del CNS, due va, esageriamo. Mi chiedo quanto sia informata Berna sul tasso di gradimento di cui beneficia il CNS fra la popolazione, fra i combattenti, fra i giovani siriani fuggiti dalla violenza nel loro paese ma coinvolti, in un modo o nell'altro, nelle attività dell'Esercito di liberazione siriano, la rete che sul terreno affronta il regime del presidente Bashar al Assad. Rispondo: nessuna idea. Si tratta di facilitare la transizione, di pensare al dopo, al day after, ha detto il ministro degli esteri svizzero. Chiedo, di nuovo: il giorno dopo di chi? Di chi vola fra Parigi, Berlino, Doha, Londra ecc.? O di chi in Siria ci è rimasto? E ci muore? Ai soldi per i CNS ci pensano il Qatar e l'Arabia Saudita. Facciamo i seri, fuori dalla provincia per una volta. 60mila franchi per una riunione segreta che visto il tenore di queste riunioni (litigano e urlano in continuazione) segreta sarà rimasta per ben poco. Berna ha detto che non c'era nessuno dei suoi. Me lo auguro. Ci fosse stato qualcuno l'assegno magari non l'avrebbe firmato. Ho una proposta, se Berna mi legge. Sto incontrando un numero altissimo di feriti. Finora sono tutti ex combattenti dell'Esercito di liberazione siriano. Ho conosciuto un medico che, da solo, si inventa soluzioni impensabili per curarli. Impazzirebbe dalla gioia se di franchi ne ricevesse anche soltanto 20mila, e non chiede nemmeno il contante. Chiede medicinali, strumenti medici. Questo è il suo indirizzo email (non parla inglese, ma qualcuno tradurrà): talal0123@hotmail.com. Un'altra proposta, per i 40mila franchi che resterebbero: ricoverare in Svizzera un primo ferito grave, operarlo, rimetterlo in sesto. Il primo di una serie. Un atteggiamento che farebbe scuola fra altri paesi europei. E di cui la Svizzera potrebbe vantarsi. Niente gloria con i 60mila franchi buttati al vento di Berlino. E se per Berna curare i combattenti significa sbilanciarsi troppo (quello dei soldi è un discorso diverso: è una somma quasi ridicola) che si occupi allora dei civili feriti. Ne porti uno - dico uno - e lo curi. Se la Rega ha trasportato militari americani dall'Afghanistan, vuoi che non atterri in Turchia? Ultima riflessione: i ribelli dell'Esercito di liberazione hanno deciso di attaccare Aleppo. L'esercito regolare risponde con brutalità. In mezzo i civili, quelli che non sono riusciti a fuggire. L'operazione è stata autorizzata (perlomeno non ostacolata) dallo stesso CNS, magari nel corso della riunione segreta di Berlino. Qualcuno dei suoi rappresentanti, per prendere questa decisione, ci avrà dormito sopra, come si dice. Grazie ai 60mila franchi di Berna, sopra un morbido cuscino. Siamo sicuri che l'Esercito di liberazione stia facendo la cosa giusta contribuendo a trasformare Aleppo in un teatro di scontri armati? E' una guerra. E in una guerra pagano sempre i civili. L'appoggio di Berna al CNS rende la Svizzera complice anche di questa situazione.
Propongo un coinvolgimento esplicito e profilato della Confederazione in operazioni umanitarie di qualità. Questo. E questo soltanto, signor ministro degli esteri Burkhalter.

(c) 2012 weast productions / gg

lunedì 30 luglio 2012

Il dovere di uomo. Non di soldato.


(c) weast productions / gg

Quando un militare sceglie di non fare il suo dovere di soldato. La storia di Mohammad, disertore dell'esercito siriano, rimasto cieco dopo l'esplosione di una bomba sulla sua casa. Prossimamente (venerdì) sulla Regione.

Ancora un chilometro, metà in discesa. C’è soltanto la collina da superare.  A volte i guai iniziano quando hai l’impressione di esserteli lasciati alle spalle. Per sempre. Un cecchino siriano. Un’unità dell’esercito spuntata dal nulla. Un gruppo di ribelli che ti scambiano per un nemico. Avanti. Un passo dopo l’altro. Di notte. Sotto una luna che sembra trattenere il fiato per fare meno luce e nasconderti. Buio. Per Mohammad Faisal Assaf  non fa differenza. E’ al buio dal 18 giugno scorso. Cieco. A 28 anni cammina insicuro e fragile, disorientato.  Il contrasto con il suo fisico allenato, i capelli neri tagliati corti, la forza che il suo corpo esprime rende la scena teatrale, quasi studiata per concentrare il significato universale delle infinite contraddizioni e sofferenze della condizione umana.

martedì 24 luglio 2012

Delia, ancora. E per finire.


Ecco l'ultima cartella inviatami dall'autore del racconto di Delia. Ne ho tralasciate molte, per mancanza di tempo e di personale frequentazione del mio Blog, il tempo è stato quello che è stato. Riassumo, modificando poco, la parte che ci conduce alla fine, e alla nuova vita di Delia. Chissà che non la ritroveremo, un giorno o l'altro. Una tosta, ma tosta davvero.

Aveva aperto gli occhi e il suo corpo sapeva di cotone fresco. E per la prima volta da tempo quasi immemorabile – la vita sa giocarti certi scherzi con i giorni che trascorrono – si sentiva anche viva. Lei. E basta. Si era preparata il caffè con cura e senza impazienza. Era uscita dal letto leggera: un pensiero trasparente che sapeva di rosmarino e menta e che aveva impregnato il corridoio, che quella mattina pareva senza fine. Una inestimabile passerella a sua disposizione. Il legno avrebbe custodito il calco di ogni suo passo. Ancora non sapeva, a metà strada, se offrire al mattino (alla giornata) il segno della vittoria, con l'indice e il medio della mano destra alzati, oppure soltanto il medio, solo soletto, dritto come un testimone oculare. Il testimone oculare della sua vittoria. Uhhhuhhh....
Delia si era decisa per la seconda variante. Dito medio da solo e vai. Vai. Vai. Vai. I destinatari erano due e l'avrebbero capito, quel gesto, a distanza, anche senza vederlo, percependo soltanto il sibilo dell'aria che il movimento mano-dito avrebbe provocato nel suo comporsi. I destinatari erano i due uomini nei quali era – come dire, uhmmmmmmm, come dire? - incespicata nel recentissimo passato della sua vita. Ricapitoliamo: uno, che avevamo lasciato morto o piuttosto moribondo, se l'era cavata con una leggera ferita da taglio all'avambraccio destro. Ma siccome il sangue lo faceva penare, aveva perso i sensi ed era parso morto, a se stesso più che agli altri, che lo avevano soccorso: dai, non esagerare, alzati! Era soltanto svenuto. Ritornato in sé aveva capito che Delia non era nemmeno lontanamente pensabile per lui e l'aveva cancellata dalla sua testa con la volontà che gli rimaneva. L'altro, il dentista, si era polverizzato. Nullificato. Delia lo aveva laserizzato. Finito. Nullo. Dentista e basta. Wooooow. 
Il caffè ormai flirtava con il profumo di rosmarino e menta del corridoio. Delia contava i millimetri con lo strumento di precisione dei suoi occhi, quanti ne mancavano al contatto della su amano destra con il manico della caffettiera, al prodursi della meravigliosa cascata del liquido bruno dentro la tazzina che aspettava soooooltanto che si scaricasse quella nuvola fumante e promettente. Caffèèèèè. Santiddio quanto puo' farci bene un caffè. Ecco che cosa si era detta Delia. E cominciava a pensare. A ripensare. Era tornata in sé. Dopo un lungo viaggio. La polizia l'aveva interrogata sul caso del conoscente semiaccoltellato e del dentista preso a pugni. Lei aveva negato tutto. Producendo un alibi, suo, anzi suissimo: non c'ero, dimostratemi il contrario. Qualcuno, infatti, aveva prodotto una testimonianza blindata, giurando di avere visto una figura femminile, in entrambi i casi, fendere la notte della città come una pallottola: vestita di nero, sospesa a un paio di elegantissime scarpe, vestita alla Jil Sander. Tornare a casa, insomma, senza fretta ma determinata. A un'ora non collegabile ai fatti indagati. Doveva essere Delia, soltanto Delia sapeva muoversi così: cattiva e elegante. Graaaazie! Delia aveva detto al testimone, senza nemmeno uno sguardo. Era fuori. Dal caso, dai guai. Che palla senza fondo. Perché Delia c'entrava eccome, col coltello e col pugno in faccia. Ma se uno si mette in testa di darti una mano, perché deluderlo, perché? Che cosa si aspettava, l'ometto perfettamente vestito che si era fatto avanti con gli investigatori? Di condividere lo strepitoso contenuto della caffettiera di Delia, un mattino o l'altro? Se lo scordasse pure, questo pensiero. Avrebbe fatto una brutta fine, come minimo Delia gli avrebbe spezzato un femore.
Come stooooo beeene, pensava Delia. Sola. La valigia era pronta. Il taxi attendeva. Di corsa all'aeroporto. Aveva un confine da attraversare. A piedi nudi, questa volta. Senza rumore. Dall'altra parte qualcuno la stava aspettando. Un uomo. Delia senza uomini non sapeva stare. L'avrebbe portata con sé, senza tante parole, senza tanti sguardi. Dentro il suo mondo, cosi' come Delia sarebbe rimasta dentro il suo. Si sarebbero fatti, insieme, un sacco di risate. E insieme avrebbero avuto paura. Anche quella. - Fine -

sabato 7 luglio 2012

Delia. Rieccola.



Ho ricevuto questa fotografia, da una persona che suppongo abbia seguito la storia di Delia in passato. Altrimenti non avrebbe scritto, sul retro, "Delia?".  Quasi a chiedere: è lei, ci assomiglia? No, non è Delia, ma qualcosa di lei c'è. La fotografia è stata scattata da Dario Mondero, di cui è in corso una mostra antologica a Genova (fino al 19 agosto, leggo sulla cartolina). Titolo dell'esposizione: Dalla parte dell'uomo. Io sto dalla parte di Delia. Così tanto che mi sono lasciato prendere dai capitoli che l'autore mi invia allegandoli a brevi messaggi di posta elettronica: "Ecco, capitolo 7. Saluti." Ho smesso di pubblicare il racconto di Delia. Non volevo più condividerla finché non l'avessi scoperta interamente, finché non avessi capito che fine avrebbe fatto. Lei, i suoi uomini, la sua furia vitale. Ho letto l'ultimo capitolo qualche settimana fa. Riprendero' a pubblicare la storia di Delia: tralascerò alcune parti e portero' i lettori verso una rapida e folgorante conclusione. C'è una scena strepitosa fra i capitoli che ho letto: Delia a letto, di domenica. Avvolta nelle lenzuola di cotone un po' ruvido che adora. Dalle finestre passa un filo di luce. Qualche macchina, scorrendo lenta, le fa capire che le strade sono bagnate di pioggia. L'aria ha cambiato temperatura, ha abbassato il termostato dell'estate. Al rallentatore, Delia volta la desta verso destra, dove si trova la porta della camera da letto. La sera prima, rientrando, si era tolta le scarpe in fretta, gettandole alla rinfusa, due trampoli eleganti che ora sembrano fenicotteri assopiti davanti al letto. I jeans sono in corridoio, senza vita dentro. La maglietta è nella pattumiera. L'aveva fatta a pezzi appena rientrata: ridotta a francobolli lavorando di forbice. Sapeva di lui. Che ora non c'era più'. Lo aveva cancellato dalla sua vita schiacciando due volte (o erano state cento?) sul tasto DELETE. Più' facile che con il telefonino. La scritta sulla faccia di lui - di luuuui -  lampeggiava affogata nell'adrenalina: "Sei sicura di volerlo fare?". Yes. Ok. Cancella. Per sempre, mi raccomando. In fondo al letto, sparse su uno spicchio di pavimento che Delia riusciva a vedere, c'erano pagine strappate, fatte a pezzi. Si era liberata anche di questo: del libro che il famoooooso critico letterarioooooo aveva consigliato quasi in ginocchio: leggetelo, vi supplico. Era una sera che Delia non aveva nulla da fare. Aveva acceso la TV e ascoltando distrattamente il lacrimevole appello letterario si era detta che quel consiglio lo avrebbe seguito. Aveva comprato il romanzo. Una stronzata pazzesca. Delia aveva chiuso i conti anche con il libro, il suo autore incapace e il critico letterario famosooooo e inutile. E quella mattina stava finalmente da Dio, dentro le lenzuola che le pizzicavano lievemente la pelle (hai presente l'effetto di un pensiero bellissimo che prende forma e tu vorresti che ci mettesse una vita? Ecco: uguale); pensava al caffè che si sarebbe preparata fra non molto; pensava alla doccia che si sarebbe fatta senza fretta; alla giornata che sarebbe stata sua; agli uomini che l'avrebbero guardata quando sarebbe uscita di casa a farsi un giro; pensava ai suoi passi che sarebbero stati leggeri, lunghissimi e avvolti di luce. Una strana luce. Ma strana davvero.

Il senso dell'estate.

Il senso del taccuino
Il senso del taccuino sulla Regione è partito per l'estate. Pausa. Ci rileggiamo a settembre. Nuove fotografie e nuovi racconti. E - se si può' dire: ma si può' dire tutto - con nuove novità. Con numerose novità su altri fronti, su piattaforme diverse. Sorprese. Intanto, sono in giro. A raccogliere istanti. Che contengono tutto. Quello che siamo. Quello che vogliamo. Quello che abbiamo vissuto. Quello che deve ancora venire. Quello che non vogliono che si dica. Quello che non vogliono che si sappia. E che si racconti. Esistenze, amori, avventure, scommesse con il destino, percorsi. L'essere. Quello che fa che siamo così.

martedì 3 luglio 2012

Dalla Svizzera luce sulla morte di Arafat.


It was a scene that riveted the world for weeks: The ailing Yasser Arafat, first besieged by Israeli tanks in his Ramallah compound, then shuttled to Paris, where he spent his final days undergoing a barrage of medical tests in a French military hospital.
Eight years after his death, it remains a mystery exactly what killed the longtime Palestinian leader. Tests conducted in Paris found no obvious traces of poison in Arafat’s system. Rumors abound about what might have killed him – cancer, cirrhosis of the liver, even allegations that he was infected with HIV.
A nine-month investigation by Al Jazeera has revealed that none of those rumors were true: Arafat was in good health until he suddenly fell ill on October 12, 2004.
More importantly, tests reveal that Arafat’s final personal belongings – his clothes, his toothbrush, even his iconic kaffiyeh – contained abnormal levels of polonium, a rare, highly radioactive element. Those personal effects, which were analyzed at the Institut de Radiophysique in Lausanne, Switzerland, were variously stained with Arafat’s blood, sweat, saliva and urine. The tests carried out on those samples suggested that there was a high level of polonium inside his body when he died.
“I can confirm to you that we measured an unexplained, elevated amount of unsupported polonium-210 in the belongings of Mr. Arafat that contained stains of biological fluids,” said Dr. Francois Bochud, the director of the institute.

Unsupported polonium

The institute studied Arafat’s personal effects, which his widow provided to Al Jazeera, the first time they had been examined by a laboratory. Doctors did not find any traces of common heavy metals or conventional poisons, so they turned their attention to more obscure elements, including polonium.
It is a highly radioactive element used, among other things, to power spacecraft. Marie Curie discovered it in 1898, and her daughter Irene was among the first people it killed: She died of leukemia several years after an accidental polonium exposure in her laboratory.
At least two people connected with Israel’s nuclear program also reportedly died after exposure to the element, according to the limited literature on the subject.
But polonium’s most famous victim was Alexander Litvinenko, the Russian spy-turned-dissident who died in London in 2006 after a lingering illness. A British inquiry found that he was poisoned with polonium slipped into his tea at a sushi restaurant.
There is little scientific consensus about the symptoms of polonium poisoning, mostly because there are so few recorded cases. Litvinenko suffered severe diarrhea, weight loss, and vomiting, all of which were symptoms Arafat exhibited in the days and weeks after he initially fell ill.
Animal studies have found similar symptoms, which lingered for weeks - depending on the dosage – until the subject died. “The primary radiation target… is the gastrointestinal tract,” said an American study conducted in 1991, “activating the ‘vomiting centre’ in the brainstem.”
Scientists in Lausanne found elevated levels of the element on Arafat’s belongings - in some cases, they were ten times higher than those on control subjects, random samples which were tested for comparison.
The lab’s results were reported in millibecquerels (mBq), a scientific unit used to measure radioactivity.
Polonium is present in the atmosphere, but the natural levels that accumulate on surfaces barely register, and the element disappears quickly. Polonium-210, the isotope found on Arafat's belongings, has a half-life of 138 days, meaning that half of the substance decays roughly every four-and-a-half months. “Even in case of a poisoning similar to the Litvinenko case, only traces of the order of a few [millibecquerels] were expected to be found in [the] year 2012,” the institute noted in its report to Al Jazeera.
But Arafat’s personal effects, particularly those with bodily fluids on them, registered much higher levels of the element. His toothbrushes had polonium levels of 54mBq; the urine stain on his underwear, 180mBq. (Another man’s pair of underwear, used as a control, measured just 6.7mBq.)
Further tests, conducted over a three-month period from March until June, concluded that most of that polonium – between 60 and 80 per cent, depending on the sample – was “unsupported,” meaning that it did not come from natural sources. (Fonte: Al Jazeera)