Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

lunedì 28 maggio 2012

Dentro tutti.

E' un LINK un po' datato ma resta interessante per farsi un'idea di quanto probabilmente sta succedendo sul terreno in Siria e di quante siano le facce della realtà che ci ostiniamo a capire e, qualche volta, a raccontare. Da aggiungere la presenza di russi, iraniani, libanesi, ecc.

domenica 27 maggio 2012

Stanno al gioco. Sempre.

(c) 2012 weast / I testimoni hanno bisogno di poco bagaglio.


Oggi mi ha scritto Maria de Lourdes Villiers-Farrow. Per farmi capire: Mia Farrow. L'attrice. Su Twitter. Non la seguo e quindi deve essersi trattato di un RT di qualcuno che seguo. Mia si diceva "indignata" a nome di UNICEF - l'agenzia ONU per l'infanzia - di cui è ambasciatrice. Indignata per il massacro di Houla, in Siria, e in particolare per la morte di "32 bambini". Ho ritwittato scrivendo "qual è la soglia di morti necessaria per ricevere un messaggio da Mia Farrow?". Per ricevere - aggiungo ora - un messaggio da UNICEF o dall'ONU in generale? Che si è prestata a un gioco subdolo e pericoloso in Siria:  osservare cio' che il mondo non vuole vedere. La morte. Portata dall'odio interetnico, dallo spirito di sopravvivenza di un reggente, dall'infiltrazione dei professionisti della violenza e del tritolo. Un gioco subdolo perché non puoi startene a guardare la morte senza dire chi l'ha causata, senza urlarlo. Non puoi mandare un messaggino quando la conta dei morti, fra i bimbi, arriva persino a New York, a strapparti agli affari tuoi che giustamente stai seguendo. O lo fai da subito, dal primo morto, o scegli il silenzio, anche quando i morti sono cento. Per coerenza. Per decenza. E' questo che voglio dire: o si denuncia o si sta zitti. Si denuncia subito o si sta zitti sempre. In Afghanistan, oggi stesso, un bombardamento NATO ha ucciso sei bambini. Non ho ricevuto nulla dalla signora Farrow. Il suo rilevatore non ha fatto "bip". Perché è tarato diversamente. I testimoni hanno bisogno di poco bagaglio. Le sigle dell'ONU (UNICEF, ecc.) si portano dietro, oltre a molte lettere dell'alfabeto, una marea di persone e di occhi: che non servono a nulla. Perché, anche quando registrano, urlano e denunciano, stanno al gioco. Sempre al gioco. Degli uni e/o degli altri.

venerdì 25 maggio 2012

Domani nel Senso del taccuino.

(c) 2012 weast productions / gg


Domani nel Senso del taccuino sulla RegioneL'amore, il Kalashnikov e le tresche sul Nilo.

mercoledì 23 maggio 2012

Un testimone scomodo: su RSI 1.

(c) 2012 weast

Questo è il LINK alla trasmissione.

Giovedi' sera 24 maggio a Falo' su RSI 1 (Televisione svizzera), ore 21.10, l'inchiesta di Weast Productions svela il caso El Ghanam. Una vicenda che coinvolge i servizi segreti svizzeri e un colonnello egiziano rifugiato politico a Ginevra.

In Egitto molti lo considererebbero un eroe, un anticipatore della rivoluzione, perché aveva osato criticare il regime di Mubarak quando tutti lo temevano. In Svizzera è in carcere, a Champ-Dollon. In internamento da cinque anni perché giudicato pericoloso. Mohammed El Ghanam, colonnello egiziano, esperto riconosciuto di terrorismo, era giunto in Svizzera dieci anni fa come rifugiato politico. Si è sempre definito una vittima delle pressioni fisiche e psicologiche dei servizi segreti elvetici e delle autorità politiche ginevrine e federali per essersi rifiutato di collaborare come agente infiltrato negli ambienti islamici. I medici del carcere ginevrino si dicono molto preoccupati per le sue condizioni di salute, ma l’egiziano resta in carcere. Una vicenda che getta lunghe ombre e suscita non pochi interrogativi sull'operato dei servizi segreti svizzeri e sulle autorità giudiziarie ginevrine.

Amori rivoluzionari.

(c) 2012 weast productions

(c) 2012 weast productions

(c) 2012 weast productions

martedì 15 maggio 2012

Un'Associazione chiamata Assil.

Assil (a sinistra) e la sua famiglia al completo.

Assil, seconda da destra, con la madre e due sorelline.

Sabato 12 maggio nel Senso del taccuino (pubblicato sulla Regione) ho raccontato la storia di Assil e criticato le difficoltà (le barriere) che esistono per aiutarla direttamente dalla Svizzera. Molte persone mi hanno scritto dicendosi disposte a dare il proprio contributo. Altre lo avevano già fatto in passato, essendo a conoscenza del caso della bambina palestinese ustionata e della sua famiglia.

Il 1° febbraio 2012 è stata ufficialmente costituita l'Associazione Assil, di cui sono l'iniziatore e il presidente. 

L'Associazione Assil ha quale fine, con esclusivo scopo di beneficienza, l'aiuto e l'assistenza di carattere finanziario, medico, umanitario, logistico, educativo destinato a bambini e adolescenti nonché alle loro famiglie residenti in paesi colpiti dalla guerra e dai conflitti in genere, dalla povertà, da catastrofi naturali e ambientali.

Il primo caso di cui l'Associazione si sta occupando è proprio Assil, che è l'ispiratrice e il simbolo di questa iniziativa. Altri casi seguiranno, individuati da me, in giro per il mondo, o su segnalazione di terzi.

Chi fosse interessato a ricevere maggiori informazioni sull'Associazione Assil e le sue attività è invitato a scrivere a associazioneassil@gmail.com

lunedì 14 maggio 2012

Quei maschi piuttosto ingrassati. E la rivoluzione al femminile.

(c) 2012 weast prodution / gg

Via Twitter ricevo QUESTO link.  Si tratta di un gruppo di ragazze (3 o quattro al massimo) che ad Aleppo oggi - 14 maggio 2012 - cercano di impedire che soldati siriani arrestino dei loro colleghi studenti. Mmmmm. Le ragazze portano il velo, se gli occhi non mi ingannano una è addirittura divelointegralevestita. Quando si dice coraggio. L'ho sempre detto, lo ripeto: la rivoluzione in Medio Oriente passa attraverso le donne. E siccome non è ancora accaduto, la vera rivoluzione non c'è ancora stata. In Libia ho raccontato la storia di donne coraggiose che sostenevano la rivoluzione, i combattenti al fronte (maschi scellerati nella confusione che creavano); in Palestina ho conosciuto donne coraggiosissime nel difendere i propri figli, sole, senza armi, soltanto con la loro intelligenza; in Libano ho conosciuto giornaliste (arabe) al fronte; in Iraq una che mi parlava (male) di Saddam Hussein quando lui - lui! - era ancora al potere; sempre in Libia ho conosciuto una giovane egiziana con la passione per la fotografia: lavorava come interprete per la TV spagnola, ma sognava i suoi scatti: oggi ha realizzato il sogno. Potrei andare avanti, per molto ancora. Finisco con questa istantanea: una fotografa araba in un mare di uomini. Non è a disagio. Aaaaanzi: pur di portarsi a casa lo scatto li prenderebbe tutti a schiaffi. A schiaffi no: troverebbe un modo per fargli credere, ai colleghi maschi, che la vera notizia è fuori dalla sala. Una palla colossale. Ma loro - i maschi - ci crederebbero. E' così che si fa: da furbi. Da furbe, sorry. Questo per dire che la percentuale di donne giornaliste europee che incontro sugli scenari caldi del mondo è ridicola se paragonata a quella delle donne arabe (musulmane, cristiane). Tutte giovani. Le donne occidentali provano, per le colleghe in chador (per loro sono velate anche le cristiane, quasi il velo ti ingrippasse il cervello), compassione e, al massimo, esprimono un senso di femminile solidarietà. Peccato. Dovrebbero, semplicemente e senza malanimo, invidiarle. Ma se lo facessero dovrebbero anche riconoscere che qui - qui da noi, vale a dire in Occidente, ragazzi, sveglia!!!! - ancora stanno agli ordini dei maschi. Maschi solitamente piuttosto incapaci, piuttosto ingrigiti, piuttosto ingrassati, piuttosto senza fantasia, piuttosto senza palle, piuttosto gelosi del posto che occupano. E' così. La rivoluzione è a Oriente. Good night.

venerdì 11 maggio 2012

Quasi New York. Almost New York.


 (c) 2012 weast / Cigarette and coffee on the roof. 

(c) 2012 weast /  DVD in a New York flat, later on?


(c) weast 2012 / New York: sirens in the air. 

Eeeehhh, New York. Vedi la gente come vive. Sui tetti. Basta togliere la balaustra di un balcone, comprarsi una scala al fai-da-te, incollarla o avvitarla oppure sistemarla a martellate, basta comprarsi una sedia a sdraio, un pacchetto di sigarette, una bottiglia di vino rosso. E la vita ti sorride. Sei il protagonista.  Anzi, una coppia di protagonisti. Lui sulla sdraio, in T-shirt bianca, lei appollaiata sulla scaletta nuova nuova, ancora un po' timorosa che non si sa mai potrebbe cedere. Qualche finestra illuminata, nella notte che sgrana l'occhio della macchina fotografica. Di che cosa staranno parlando? Del futuro? Del passato? Di lavoro? Di un film che hanno guardato insieme o di un DVD che si guarderanno fra poco ma che lei - lei - non avrebbe mai comperato, per nulla al mondo. C-o-m-m-e-r-c-i-a-l-e. Lui è fatto così'. La domenica si guarda le partite alla TV. Lei è fatta così'. La domenica passa il tempo al centro culturale. L'aria ormai tiepida è increspata soltanto dal loro fitto discutere. Si intromette la sirena di una pattuglia della polizia, come una vicina spaccapalle. Un lamento che non sembra finire mai e rende l'aria elettrica. Una finestra si illumina. Compare un signore - vive solo, da anni - si accende una sigaretta e tossisce profondo: se l'è cercata. Lui - lui in T-shirt bianca - ha un'idea e gliela comunica, d'un fiato, a lei sulle scale: niente DVD questa sera, facciamo l'amore. La sirena è ormai lontana. Il brutto ceffo sarà stato arrestato. La vita è tornata nei suoi cardini. Il traffico scorre lento, melmoso e normale, un lungo e inarrestabile borbottio di cavalli motore a basso regime. Basta sorprese. Dai, vieni. Sciocco, finiamo il vino, la sigaretta. Sempre la solita. Borioso. Bacio. Bacio. Ti voglio bene. Che scena da film. Dai, noi due. Si', noi. Due.
Se non fosse stata scattata a Bellinzona - Bellinzona! - potrebbe essere la fotografia di  un film ambientato a New York. Daaaavvero. Una storia così' immaginata da sembrare vera. Lo è. Basta sapere cercare. Ascoltare.

La pace sotto embargo.

(c) 2012 weast productions / g.g.

Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: Quell'embargo che colpisce un simbolo di pace.

martedì 8 maggio 2012

Tutti fuori. A galleggiare.

(c) weast 2012


Pubblico veloce questa fotografia, per rispondere al post di Stefania (vedi alla voce "Un cuore che fa click"). Stefania mi onora di una citazione di Tiziano Terzani, che in un passaggio di Un indovino mi disse ci spiega, con straordinaria sensibilità, che senza immagini o descrizioni la realtà non esiste. In sostanza che "se non c'è qualcuno che raccoglie una testimonianza, che ne scrive, qualcuno che fa una foto, che ne lascia traccia in un libro, è come se quei fatti non fossero mai avvenuti". Quei fatti uguale a tragedie, guerre, ma, aggiungo io, anche gioie, amori, eccetera.  Diverso il mio sguardo. Sono convinto che ogni immagine, ogni fotografia, ciascuna descrizione affidata a un libro o a un articolo esprimano non soltanto ciò che vediamo ma anche ciò che non possiamo vedere in quell'istante. Ogni immagine, se è immagine del mondo ma anche di chi il mondo lo coglie e di chi lo prende in consegna guardandolo, rivendica il diritto di diventare immagine di tutte le realtà che immagine/i non sono diventate. Ciò che non è stato colto (raccontato) esiste nella necessità o nell'urgenza di essere mostrato (o raccontato) nel momento stesso in cui a essere mostrato (o raccontato) è qualcosa d'altro. Come in questa fotografia. Mostra un'automobile (in un paese arabo) con dentro, appeso allo specchietto, un alberello magico. La fotografia è completa e incompleta. Completa perché racconta la straordinaria passione degli arabi per queste fonti di essenze che-ti-fanno-una-testa-come-un-pallone. E incompleta perché esprime l'assenza dell'autista. Che vorremmo vedere. La sua assenza, così evocata, è pero' in parte già raccontata. L'assenza dell'autista, non celata, non dissimulata, esprime la sua esistenza. In questo senso non credo che ciò che non mostriamo o non raccontiamo non esiste. Esiste nella consapevolezza che il mondo non si racconta mai abbastanza. E quindi anche come denuncia di ciò' che si sceglie di ignorare. Esiste come assordante invito a chi il mondo lo racconta per mestiere a spaziare, viaggiare, curiosare, inventare, alzarsi il mattino con la voglia di uscire di casa e scoprire questa meravigliosa palla galleggiante nell'universo e colma di sorprese. Fosse per me (devo averlo già scritto da qualche parte) chiuderei tutte le redazioni del mondo. Tutti fuori. A galleggiare. 

sabato 5 maggio 2012

Domande. E risposte vaghe.


(c) weast 2012

Siamo un popolo di furbetti. Quindi non abbastanza furbi. In definitiva: siamo dei polli. Ci piace fare le cose di nascosto, ma ci prendono sempre con le mani nella marmellata. E quando succede, oltre che quella dei polli, facciamo la figura di persone poco simpatiche. Ultima della serie: la REGA. Ha dovuto ammettere che negli scorsi due anni ha rimpatriato a bordo dei suoi aerei ambulanza militari americani dall'Iraq e dall'Afghanistan. Paesi in guerra. E, secondo alcuni, anche sotto occupazione straniera. In guerra medici e infermieri dovrebbero essere neutrali di fronte alle vittime: sul campo di battaglia per i soccorritori non ci sono né amici né tantomeno nemici. Lo dice anche la Rega. E' corretto. Ora, diamo un'occhiata agli statuti: “La nostra attività è mirata principalmente alle necessità della popolazione svizzera.” Nel rapporto di esercizio 2011 si parla di numerosi interventi all'estero, ma zitti sull'Iraq e l'Afghanistan. Se mi è sfuggito, prego segnalatelo, sono pronto a rettificare. Perché tacete? Perché non dirlo subito, perché non fare tutto alla luce del sole? “La nostra organizzazione non persegue scopo di lucro e gode dell'appoggio di sostenitrici e sostenitori”, si legge ancora negli statuti. Okay. I trasporti di feriti americani non erano un'emergenza e non riguardavano pazienti svizzeri. Perché lo avete fatto? Per guadagnare soldi, che vi servono a coprire eventuali spese causate da interventi in Svizzera o per pazienti svizzeri all'estero, per migliorare la qualità dei vostri interventi. E, oltre a questo, il vostro personale di volo impara ad atterrare a Kabul (forse Bagram) e Bagdad, mentre medici e infermieri apprendono che cosa significa dovere trattare una ferita di guerra, sorvegliare un corpo fatto a pezzi da una mina, eccetera. A proposito: utilizzate un aereo “banalizzato", ovvero senza insegne, ho portate quella della Guardia aerea svizzera? Ditelo. Ditelo, scrivetelo nei vostri rapporti d'esercizio e sul vostro sito web patinato e nella lettera che ogni anno inviate ai sostenitori chiedendo il contributo. Qualcuno potrebbe anche non avere piu' voglia di pagarlo. Questione di convinzioni politiche, etiche, di un modo personale di vedere il mondo. Che è un mercato. E come tale va affrontato, anche se scrivete che “la Rega è contraria alla commercializzazione del soccorso aereo”. Significa che è contraria alla concorrenza? Anche sugli scenari di guerra? Okay, okay. Ma come siete messi con i rimpatri di chi non puo' pagarvi ma vi guarda con gli occhi enormi da un letto d'ospedale, statale o se va bene di qualche ONG straniera? Che cosa fate se, imbarcati i marines feriti e constatato che è rimasto un posto libero, un medico afgano vi dice che c'è una bimba che soltanto in Europa potrebbe sperare di salvarsi e vi implora di imbarcarla? Che fate? Decollate senza? Oppure dareste uno strappo anche alla piccola con le ossa a pezzi perché finita troppo vicina a una pattuglia americana, in Afghanistan? Okay, go for it? I costi? Chi li paga? Fateli pagare a chi l'ha ridotta in quel modo. Utilizzate pure anche la mia ridicola quota annua di socio contribuente. Perché, come scrivete nel vostro sito, “la Rega è sostenuta dalla popolazione svizzera”. Che avrà pure qualcosa da dire, qualche domanda da fare. Le risposte, finora, sono state troppo vaghe. 

giovedì 3 maggio 2012

Un cuore che fa click.

(c)  2012 weast productions

Oggi è la Giornata mondiale della libertà di stampa e quindi di informazione. L'ha indetta l'ONU nel 1993. Questo Blog, Weast Productions e i suoi collaboratori dedicano il 3 maggio ai colleghi uccisi o feriti sul terreno, a quelli imprigionati. E a quelli, animati da grande passione, che ancora ci credono. Perché fra i grandi nemici della libertà di stampa c'è la stampa stessa, quella in ginocchio davanti ai poteri (politici, economici), che molto spesso ama definire forti per inventarsi una giustificazione dietro la quale nascondere la debolezza del suo approccio; la stampa che ha smarrito la curiosità; la stampa che si accontenta; la stampa senza fantasia; la stampa che "fa informazione" come si fanno i biscotti e che quando la definiscono "industria" se la tira pure, pensando che sia un complimento. Questa giornata la dedichiamo anche ai giovani che hanno voglia di fare questo mestiere. A chi è allergico ai luoghi comuni e alle frasi fatte. Alle immagini stereotipate. A chi ha il cuore che batte facendo click, come lo scatto di una macchina fotografica. O che non si stacca mai dal suo taccuino. Che la telecamera se l'è cucita addosso. E poi, ancora: dedichiamo il 3 maggio alle tante persone di cui la stampa cosiddetta libera dei paesi cosiddetti liberi non si occupa, che semplicemente ignora. Senza che ci sia un dittatore a imporlo. E' il mercato, baby. L'industria.