Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 31 marzo 2012

Apologia dell'inquietudine (parte seconda).



    Ecco, a grande richiesta, la seconda puntata del racconto che un lettore mi ha inviato. Ho apportato soltanto qualche non rilevante modifica editoriale.

    L. ascoltava un vecchio disco di Miles Davis. Criiiiisto come entrava nelle vene. Sotto la peeeeelle. Nel kuore. eeeeeeeeee. Gli era andata bene. Di un bene che nemmeno se lo meritava. Quella sera era uscito: un paio di bicchieri al bar, che male c'è? Lei era arrivata dopo. Si era parcheggiata accanto a lui, al bancone. Alla sua sinistra. Sgabello libero, freccia accesa, colpo di freno. E di sterzo. Ora immobile, come un cecchino. Ciao! Ciaoooo. Il barista, quel bastaaaaaardo di Mike, gli aveva fatto l'occhiolino. L'occhiolino, ma ti immagini? L'occhiolino lo fai a uno che sta per combinare un affare, non a uno che si sta per incasinare. E lui si era quasi incasinato. Lei aveva detto di chiamarsi Delia. Al bancone parlava poco. Aveva, pero', un modo strano di guardarsi attorno e di guardarlo, come fosse sul chi vive, preoccupata di essere seguita, di avere dei mastini cattiviiiii alle calcagna. Alle quali aveva, parlando di calcagna, le sue, scarpe eleganti. Come tutto il resto. Stai a vedere che Mike aveva visto giusto, quel bastaaaardo di barista...
    Erano finiti a casa sua, di L. Non ubriachi, questo no. Accesi, innescati. Entrambi. Come una bomba a mano che ancora stringi nel pugno chiuso, sicuro. Ma non sai mai. Il pugno si era allentato. Fatidicamente. La granata aveva iniziato il suo intimo coooonto alla rovescia. Ed era esplosa. Booooom. Delia aveva cominiciato a parlare. Un fiume in piena, non esauribile. Parole. Parole. E parole. P-a-r-o-l-e. L. non si aspettava nulla da quella serata. Nemmeno dall'invito. Dall'essere Delia li' con lui. Nulla. Oppure: tutto. Ma non parole. Resta da me, dormi da me. Dormi con me. O dormi sola. Ma non parlare. Delia aveva deciso di parlare.
    Improvvisamente, il silenzio. Sospeso. Totale. Ingombrante. Precipitato dentro il lungo tubo che era stata la vita di L. fino a uscire proprio nel suo soggiorno. Venirne fuori con un colpo secco e poi piu' nulla: bang! Il volto smorto di Delia. Gli occhi increduli, alla ricerca di uno specchio. La lingua, nella bocca deliziosa, che si muoveva all'impazzata, alla ricerca del pezzo perduto. Di quella maledetta capsula che si era staccata. All'improvviso. Era stata dal dentista la mattina stessa e gli aveva dato mezzo salario. Per essere precisi e sinceri fino in fondo: se l'era fatto strappare dalle mani.
    Ora il pezzo di ingegneria dentistica se ne era andato per i fatti suoi. Girava nella bocca di Delia come un criceto nella sua ruota. Lo aveva infine trovato, davanti allo specchio (l'unico) che L. teneva nel salotto piccolo, quello prima della camera da letto. Aveva tolto il semidente, la capsula!, l'aveva avvolta in un fazzoletto di stoffa con le iniziali D.G. e l'aveva riposta nella borsetta. Come da bambina faceva con le rondini cadute per strada intontite dal freddo. O come avrebbe fatto un giorno con la pistola, dopo averle tolto le impronte digitali. Delia aveva chiesto scusa, mille volte scuuuuusaaaaa, e si era sparata fuori dalla porta, dritto verso casa. Casa sua. Sciao, sciao.
    Rimasto solo (soloooooo) L. non finiva di ripetersi che gli era andata bene. Di un bene che nemmeno se lo meritava. Poi era squillato il telefono, inquinando le note di Miles Davis, e lui aveva deciso di rispondere. Quel bene non se lo meritava davvero. (2/continua)

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