Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 31 marzo 2012

Apologia dell'inquietudine (parte seconda).



    Ecco, a grande richiesta, la seconda puntata del racconto che un lettore mi ha inviato. Ho apportato soltanto qualche non rilevante modifica editoriale.

    L. ascoltava un vecchio disco di Miles Davis. Criiiiisto come entrava nelle vene. Sotto la peeeeelle. Nel kuore. eeeeeeeeee. Gli era andata bene. Di un bene che nemmeno se lo meritava. Quella sera era uscito: un paio di bicchieri al bar, che male c'è? Lei era arrivata dopo. Si era parcheggiata accanto a lui, al bancone. Alla sua sinistra. Sgabello libero, freccia accesa, colpo di freno. E di sterzo. Ora immobile, come un cecchino. Ciao! Ciaoooo. Il barista, quel bastaaaaaardo di Mike, gli aveva fatto l'occhiolino. L'occhiolino, ma ti immagini? L'occhiolino lo fai a uno che sta per combinare un affare, non a uno che si sta per incasinare. E lui si era quasi incasinato. Lei aveva detto di chiamarsi Delia. Al bancone parlava poco. Aveva, pero', un modo strano di guardarsi attorno e di guardarlo, come fosse sul chi vive, preoccupata di essere seguita, di avere dei mastini cattiviiiii alle calcagna. Alle quali aveva, parlando di calcagna, le sue, scarpe eleganti. Come tutto il resto. Stai a vedere che Mike aveva visto giusto, quel bastaaaardo di barista...
    Erano finiti a casa sua, di L. Non ubriachi, questo no. Accesi, innescati. Entrambi. Come una bomba a mano che ancora stringi nel pugno chiuso, sicuro. Ma non sai mai. Il pugno si era allentato. Fatidicamente. La granata aveva iniziato il suo intimo coooonto alla rovescia. Ed era esplosa. Booooom. Delia aveva cominiciato a parlare. Un fiume in piena, non esauribile. Parole. Parole. E parole. P-a-r-o-l-e. L. non si aspettava nulla da quella serata. Nemmeno dall'invito. Dall'essere Delia li' con lui. Nulla. Oppure: tutto. Ma non parole. Resta da me, dormi da me. Dormi con me. O dormi sola. Ma non parlare. Delia aveva deciso di parlare.
    Improvvisamente, il silenzio. Sospeso. Totale. Ingombrante. Precipitato dentro il lungo tubo che era stata la vita di L. fino a uscire proprio nel suo soggiorno. Venirne fuori con un colpo secco e poi piu' nulla: bang! Il volto smorto di Delia. Gli occhi increduli, alla ricerca di uno specchio. La lingua, nella bocca deliziosa, che si muoveva all'impazzata, alla ricerca del pezzo perduto. Di quella maledetta capsula che si era staccata. All'improvviso. Era stata dal dentista la mattina stessa e gli aveva dato mezzo salario. Per essere precisi e sinceri fino in fondo: se l'era fatto strappare dalle mani.
    Ora il pezzo di ingegneria dentistica se ne era andato per i fatti suoi. Girava nella bocca di Delia come un criceto nella sua ruota. Lo aveva infine trovato, davanti allo specchio (l'unico) che L. teneva nel salotto piccolo, quello prima della camera da letto. Aveva tolto il semidente, la capsula!, l'aveva avvolta in un fazzoletto di stoffa con le iniziali D.G. e l'aveva riposta nella borsetta. Come da bambina faceva con le rondini cadute per strada intontite dal freddo. O come avrebbe fatto un giorno con la pistola, dopo averle tolto le impronte digitali. Delia aveva chiesto scusa, mille volte scuuuuusaaaaa, e si era sparata fuori dalla porta, dritto verso casa. Casa sua. Sciao, sciao.
    Rimasto solo (soloooooo) L. non finiva di ripetersi che gli era andata bene. Di un bene che nemmeno se lo meritava. Poi era squillato il telefono, inquinando le note di Miles Davis, e lui aveva deciso di rispondere. Quel bene non se lo meritava davvero. (2/continua)

venerdì 30 marzo 2012

Donne contro. Anima e corpo.

(c) weast productions / gg
Nell'immagine, al centro, Maryam Namazie, attivista e ideatrice della campagna Nude Photo Revolutionaries Calendar.

Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: Donne contro. Anima e corpo. Perché il corpo - anche nudo - può fare la rivoluzione. QUESTO il link al calendario delle rivoluzionarie.

martedì 27 marzo 2012

Silenzio. Si uccide.


(c) 2012 weast productions

La morte di altri due giornalisti indipendenti in Siria. Segnalarla è un doveroso atto di cronaca. Perché il fuoco ad alzo zero sui testimoni è la prova più' lampante della esistente determinazione di chi preme il grilletto  a nascondere i crimini compiuti contro la popolazione civile. Il nostro mestiere di giornalisti ci chiede di segnalare il lento avanzare della campagna di morte. E di denunciarla.  



Two independent journalists killed in Syria
New York, March 27, 2012--Syrian security forces shot and killed two freelance British journalists of Algerian descent and wounded a third during an attack on Monday in the town of Darkoush near the Turkish border, according to news reports and a witness interviewed by CPJ.
The Spanish daily El Mundo, citing local activists, identified the deceased as Naseem Intriri and Walid Bledi, and the witness interviewed by CPJ confirmed the identities. The wounded journalist was not immediately identified.
The journalists were filming a documentary about Syrians escaping the conflict and fleeing to Turkey, according to the London-based Guardian and regional press freedom groups. They were staying with several Syrian activists in a house in Darkoush in Idlib province, which is a center for the conflict, news reports said.
The Syrian army, along with plainclothes militiamen known as "Shabiha," began shooting at the home Monday morning, according to the witness interviewed by CPJ. The man, who is not being identified for safety reasons, stayed in the house with the journalists for about a week and provided some support services for them.
The witness told CPJ that when the firing began, Intriri and Bledi fled the house for a time, returning to retrieve equipment when the shooting seemed to have stopped. The man said Syrian forces fired at them, hitting one journalist in the head and the other in the chest. He said the army took the journalists' bodies, although that was not immediately corroborated in news accounts.
The wounded journalist was shot in the left shoulder as he fled from the house, the witness told CPJ. He said the journalist was driven to a hospital in Antakya by Syrians who crossed into Turkey.
"We offer our condolences to family and colleagues of Naseem Intriri and Walid Bledi," said Mohamed Abdel Dayem, CPJ's Middle East and North Africa program coordinator. "Their deaths are yet another illustration of the grave dangers that journalists face in reporting a conflict that the Syrian government has sought to hide from the world."
The state-run SANA news agency portrayed the attack as an assault on terrorists trying to infiltrate Syrian territories from the Turkish border. The Syrian government did not immediately release an official statement.
The Guardian also reported that the U.K. Foreign & Commonwealth Office said, "We are aware of reports and [are] looking into them."
After the Syrian uprisings began last year, the government sought to impose a blackout on news coverage by controlling local media and expelling or denying entry to international journalists, CPJ research shows. CPJ research shows that numerous journalists have said they have smuggled themselves into Syria in the past two months to report on the unrest despite the dangerous situation for journalists.
In all, 10 journalists have been killed in Syria since November, making it the most dangerous place for journalists in the world, CPJ research shows.

Apologia dell'inquietudine.

(c) 2012 weast productions

Pubblico la prima puntata di un lungo - ma insomma, non esageriamo... - racconto che un lettore ha deciso di spedirmi. Consegnandomi l'esplicita autorizzazione a metterlo in linea sul mio Blog, ma chiedendomi la riserva dell'anonimato. Siccome, a lettura terminata, condivido la sua visio mundi, eccolo qui, in rete, questo racconto che definisco e intitolo Apologia dell'inquietudine. Antitesi alla celebrazione del conformismo e resistenza all'ontologia dell'adattamento. Dilagano. Entrambe.


Quando A. era tornato a casa (finalmente. Stanco) si era accorto che qualcuno era entrato nella sua testa. Doveva essere capitato nelle ore piu' avanzate della mattinata. Poco prima di mezzogiorno. Avrebbe giurato (se glielo avessero chiesto. Nessuno glielo avrebbe mai chiesto, tuttavia) che era stato fra le 11.20 e le 11.55. Ne era sicuro poiché ricordava, di quella parte di tempo della giornata, di avere avvertito una strana vertigine. Era stato un attimo. Non aveva dato alcuna importanza a questa sensazione. Era uscito di casa con nello stomaco un caffè soltanto. Stanchezza. Doveva essere stanchezza. Ora, a casa, con le chiavi in mano che gli pendevano dall'indice della destra, la porta alle sue spalle semichiusa, capiva. Non era stata la stanchezza. Erano stati loro. Erano entrati. Si era sempre detto che se doveva succedere allora succedesse tardi, sui cinquant'anni, fai sessanta e affare fatto. Non a trentacinque. Non a trentacinque! Non-a-trenta-cinque. Se lo stava ripetendo nella testa che ormai non era piu' la sua. La sua testa soltanto. Il salotto di casa gli sembrava diverso. Ordinato, lucido, prevedibile. E tuttavia: inspiegabile. Il mondo che lo circondava (il suo mondo. Il suo) aveva smesso di parlargli. Di significare qualcosa. Di suscitare interrogativi, di chiedere risposte, di essere inquietante. Erano entrati nella sua testa e gliela avevano cambiata. C-a-m-b-i-a-t-a. Viveva dentro un corpo sano, il medico glielo aveva certificato. Muscoli ben formati. Tendini flessibili. Arterie come autostrade senza traffico. Le ossa come cemento armato. Eppure aveva cominciato a vedere il mondo come lo vedevano loro. Quelli che gli erano entrati nella testa. Piatto. Uguale ogni giorno. Muto. Scolorato. Toglierli, t-o-g-l-i-e-r-l-i sarebbe stato un bel problema. Una missione impossibile. O quasi. Non aveva mai visto il mondo come lo vedevano gli altri, a-l-t-r-i. Non aveva mai accettato di vederlo cosi'. Piatto. Fatto di battute spente. Di sguardi senza profondità. Di azioni senza energia. Di parole senza fondo. Un fondo vero. Di immagini senza curiosità. Aveva bisogno del suo amico L. Decisamente. Se voleva uscirne sano (sano: di nuovo) era a lui che doveva rivolgersi. (1/continua)

sabato 24 marzo 2012

Primavera a Homs.

Ho appena ricevuto questo twitt, che riguarda Homs, città devastata della Siria:

Image of spring blossoming in #Homs reminded me that light can be found in even darkest places :) http://bit.ly/GWFUOa photo v @Samsomhoms.

Sempre, nei luoghi dove l'essere umano fa la guerra, ho constatato la totale indifferenza della natura. Che segue il suo corso. Le sue leggi. Indifferente alle sofferenze, alle ingiustizie, alla violenza e al sangue.


(c) 2012 weast productions
Da tempo sto paragonando i twitts che escono dalla Siria con quelli che leggevamo ai tempi delle rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Libia. Sono diversi. Sono i messaggi di chi sta cercando di trovare un linguaggio per convincere il mondo che anche quella rivoluzione è incarnata dai giovani e dai loro ideali. Convincere il mondo che civili muoiono, bombardati. Convincere il mondo (la comunità internazionale...) a fare qualcosa. Gli attivisti stanno cercando un linguaggio, formule, frasi, immagini per innescare una reazione. A un'azione, ormai, sembrano non credere più.

venerdì 23 marzo 2012

Scomoda. Come la verità.

(c) 2012 weast productions
Donatella Luca, in risposta al mio post Contro. Per passione mi motiva a scrivere due pensieri in relazione alla mattanza commessa dal sergente maggiore americano in Afghanistan e a quella di cui è stato autore Mohammed Merah, cittadino francese di origini algerine. Approfondiremo nei prossimi giorni l'argomento, perché serve tempo per concatenare pensieri e parole. Questa sera ne ho poco. Pensiero numero uno: è un esercizio interessante paragonare gli articoli dedicati al caso afgano e quelli scritti in copertura del caso francese. Nei primi (Afghanistan) è evidente il tentativo di descrivere l'autore degli omicidi come un soggetto vittima di una situazione dentro la quale è venuto a trovarsi (troppi turni in zone di guerra, troppo stress, follia). Nel caso francese il linguaggio (sui giornali ma anche nei media elettronici) non cerca giustificazioni socio-psicologiche: va dritto al nocciolo religioso e culturale (addirittura, velatamente, di civiltà) della questione. Il racconto del passato difficile del ragazzo trascorre in secondo piano di fronte al presunto indottrinamento qaedista in Francia e, successivamente, in Pakistan e Afghanistan. Il soldato americano ha ucciso (molte più' persone, fra l'altro, prima di essere fermato) perché era stressato, il giovane francese di religione musulmana ha ucciso perché era esaltato. La descrizione, di per sé, non fa una grinza. E' una descrizione ed è una giustificazione plausibile. Ma quanto sbilanciate e quanto di parte entrambe dal punto di vista della metodologia giornalistica, di una epistemologia della conoscenza e della ricerca. Altri pensieri: il ruolo di chi ricerca la verità o, in termini più' modesti, di chi ambisce ad avvicinarsi il più' possibile a una credibile (ma soprattutto onesta) versione della verità (o della REALTA') deve pero' essere diverso. Nel caso del sergente americano non dovremmo escludere a priori il fanatismo, l'indottrinamento, l'esaltazione, la matrice religiosa. Poi, magari, giungeremmo ad escluderla, ma dovrebbero (devono) questa domanda e questo intento di ricerca costituire un punto focale dell'approccio giornalistico. Per il giovane francese di origini arabe vale la stessa cosa: dovremmo chiederci se non siano forse l'assenza documentata di un padre, lo sbandamento sociale, l'esclusione, il senso di insufficienza e di fragilità, oppure un desiderio interpretato (e manipolato da terzi, di fronte a questa predisposizione) in modo inaccettabile di rifiutare lo status quo di un'ingerenza occidentale in alcuni paesi di fede e di cultura musulmane. Per poi magari escludere, anche in questo caso, tale pista. Il fatto che l'americano sia un soldato (che indossi una divisa) lo sottrae a un giudizio che invece giornali e media elettronici riservano, con predilezione, al caso francese. Un civile che imbraccia le armi e spara su altri soldati e su un gruppo di studenti di religione ebraica innocenti e inermi non beneficia di questa flessibilità del pensiero, di questa disponibilità ermeneutica. O attenuante del pensiero. Che è quindi una falsatura del pensiero. Entrambi gli atteggiamenti sono sbagliati: l'attenuante aprioristica e la precipitazione del giudizio semantico (terrorista). Entrambe le azioni sono (per motivi diversi ma interconnessi) devianti. Dovremmo, inoltre, riservare alle vittime la stessa attenzione mediatica, iconografica: a quelle francesi e a quelle afgane. Le immagini di quelle francesi hanno fatto il giro del mondo, quelle afgane non le ha viste (se non per poco tempo) nessuno. E per quanto si siano viste, la nostra (generalizzo) reazione è stata a dir poco blanda. Dovremmo chiederci allora anche questo. Chiederci perché abbiamo (generalizzo, ancora) reagito così, perché siamo mossi da una gerarchia della partecipazione, della commozione, del pathos e non da ultimo dell'ethos. E' pericoloso scrivere quello che scrivo, a undici anni da 9/11 e conto tenuto dello stato non proprio esaltante nel quale versano la stampa e le democrazie occidentali: eppure sono convinto che vada scritto. Perché, vedete, è un po' come se uno scienziato, di fronte a una imminente e importante scoperta, si rifiutasse di entrare nel profondo di quella cellula che gli spianerebbe la strada verso la svolta. Il giornalismo non funziona, non può' funzionare così'. Dobbiamo, noi giornalisti, desiderare lo scavo, la ricerca delle cause, senza preconcetti e soprattutto senza utilizzare un vocabolario dettato dai poteri forti. Un vocabolario che ci fa chiamare pazzi i soldati americani assassini e terroristi i giovani francesi assassini di origine musulmana. Sono assassini entrambi. Su questo non c 'è dubbio e credo non valga più' la pena parlarne, siamo socraticamente d'accordo sulla definizione di base dell'argomento di cui stiamo discutendo. L'utilizzo aprioristico di vocaboli diversi dettati da uno stesso vocabolario ci impedisce pero' di fare il nostro mestiere di giornalisti fino in fondo e soprattutto di capire la realtà. E se non capiamo la realtà non potremo mai cambiarla. Da giornalista io rivendico il diritto, espresso in totale libertà, di capire i motivi per i quali il soldato americano di origini cristiane  ha aperto il fuoco (da solo?) contro 17 civili afgani inermi (musulmani). E rivendico, con altrettanta determinazione, il diritto, espresso in totale libertà, a capire le motivazioni che hanno spinto il giovane francese di origini musulmane a uccidere (musulmani e ebrei). La ricerca della verità è un esercizio di indipendenza. Soltanto se compiuto fino in fondo, senza condizionamenti (o evitando il più possibile i condizionamenti) questo esercizio ci renderà anche davvero liberi. E quindi capaci di cambiare le cose. Di evitare forse che i soldati americani uccidano di nuovo civili afgani (per parlare soltanto di questi). E di evitare forse che un giovane francese di origini musulmane imbracci di nuovo le armi perché ha deciso (o qualcuno gli ha fatto decidere) che così e soltanto così ha un ruolo da svolgere nella vita. Domande scomode, risposte scomode, che portano fuori equilibrio la bilancia dei partiti presi, degli accecamenti del buono contro il cattivo, dello scontro di religioni e di civiltà, di loro (i musulmani) contro di noi (i cristiani), del male che non siamo mai noi a compiere (noi occidentali reagiamo sempre e soltanto alle minacce) e del bene che loro (i musulmani) per un motivo inspiegabile sembrano incapaci di compiere, dell'indottrinamento che esiste soltanto da loro (i musulmani) e mai da noi (i cristiani d'Occidente). Soltanto la sensazione netta della realtà fuori squadra consente di ricostruirla da zero senza preconcetti. Per capirla davvero. E per cambiarla. Se non chiedo troppo. Nel rispetto più partecipato al destino tragico delle vittime e al dolore dei familiari.

Prime conferme (con l'invito, tuttavia, a prendere ancora tutto con cautela)

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LINK dell'AP (Associated Press) via Twitter: Officials: dozens of French Muslims train with the Taliban in Pakistan, raising fears of more attacks in France: http://apne.ws/GNTgs9 -RJJ.
I "servizi segreti", attraverso una messa in guardia dai pericoli, riescono a manipolare la percezione del mondo di ogni singolo individuo. Non devono per forza essere nel torto circa la messa in guardia, ma se fossero davvero "segreti" non lo direbbero, agirebbero. Dirlo, nelle condizioni specifiche, equivale a una ingerenza non giustificabile nella Weltanschauung di tutti noi. Evidentemente per condizionarla. Va ricordato che la Francia si trova in campagna elettorale e che i dubbi sull'affiliazione (informatore, talpa) di Mohammed Merah ai servizi di intelligence francesi non sono stati - per quanto ne sappia io - smentiti. Insomma, nessuno, finora (non le autorità, non la stampa) ci ha spiegato chi era davvero il giovane sparatore di Tolosa. Tutto questo non toglie nulla alla plausibile possibilità che ci possano essere davvero dei francesi musulmani nei campi militari del Waziristan. E d'altra parte non toglie nulla alla plausibile possibilità che questa informazione venga consegnata alle agenzie stampa da "officials" (un po' vago come termine) per sollevare un polverone e pilotare l'opinione pubblica. Il fatto che possano valere entrambe le ipotesi non neutralizza l'indispensabile necessità di capire con indipendenza.   
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Consiglio di lettura

Consiglio per chi ne avesse il tempo e il desiderio la lettura di La tragédie de l'Islam moderne, di Hamadi Redissi. Edizioni Seuil 2011. Serve un po' di conoscenza dei filosofi tedeschi per cogliere tutto fino in fondo, ma non è necessario. Non vanno necessariamente condivise le tesi, ma è interessante entrare nella dinamica del pensiero che innescano. Per capire l'altro.

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LINK sul caso del sergente americano. Sembrerebbe che le autorità americane stiano ostacolando il lavoro di indagine per chiarire la faccenda svolto dall'avvocato dello stesso sergente accusato di aver commesso la strage da solo.

La tassa sulla risata.






Tre istantanee di telecamere cittadine locali (Bellinzona, ma è soltanto un esempio, a Lugano si prepara secure-city: aiuto!). Immagini scattate col cellulare, ma con uno intelligente. Quindi, essendo dotato di cervello, mi ha fatto capire due cose. La prima: le telecamere sono posizionate su un solo crocevia stradale. Dall'altra parte della fibra ottica, in sala comandi, non può essere  seduto un tutore dell'ordine. Che se ne fa di tre prospettive diverse della stessa scena? Deve trattarsi di un regista, di un artista dell'inquadratura, che ha richiesto il campo, il controcampo, la totale o il primo piano. Un regista ci proteggerà dai crimini che si registrano nella Capitale. La seconda: che bello arrivare sempre per ultimi. Altri (altre città, altri paesi) hanno testato e repertoriato prima di noi l'inutilità di questi occhi elettronici nella lotta al crimine e alla violenza urbana. Ma siamo fatti così: vogliamo l'ultima parola, ci piace il ruolo dei certificatori. Anche dei fallimenti.  Mi dicono che si stanno avvicinando le elezioni comunali: il mio smart phone, col cervello che ha, mi suggerisce che un nesso ci possa essere. Come nelle grandi città e nei paesi grandi. Aggiustamenti di campagna: non quella con gli animali che pascolano, quella elettorale. Da notare, nell'ultima fotografia, il cartello che segnala l'attraversamento pedonale facilitato. Visibile soltanto a chi cammina con la testa fra le nuvole. Io l'ho visto. Altri? Se cammini normale lo leggi steso su una barella dopo che una macchina ti ha preso in pieno. O forse multeranno chi non li legge, perché appesa sopra i cartelli c'è un'altra telecamera. Al mio amico afgano di cui parlavo nel post di ieri e che non aspetta altro che io paghi le tasse nel suo paese ho scritto che continuerò' a pagarle nel mio: perché è il solo - il solo davvero - che i soldi dei contribuenti li usa per farli ridere. Il mondo non lo racconti mai abbastanza. Nemmeno quello sotto casa tua.

giovedì 22 marzo 2012

Mani sulle rivoluzioni.





Segnalato da Andrea Angeli nella sua newsletter. Non l'ho ancora letto ma stando al riassunto sono convinto che ci sia del vero nella tesi dell'autore. Che non toglie nulla agli ideali di chi le rivoluzioni le ha fatte e le sta facendo. 

L’oscuro ruolo di organizzazioni, fondazioni, sceicchi e servizi segreti dietro le rivolte che stanno sconvolgendo il Nord Africa e il Medio Oriente.

Milioni di persone sono scese in piazza nel mondo arabo per chiedere democrazia e li­bertà. Mossi da sincera voglia di cambiamento giovani e anziani, donne e uomini, hanno rischiato la vita sfidando regimi autoritari intoccabili per decenni. Le rivoluzioni però non nascono da sole. Dietro c’è l’impegno di pochi coraggiosi attivisti e, come sempre, l’inter­vento di chi li ha finanziati, addestrati e manipolati nel tentativo di indirizzare le proteste verso esiti a volte ben diversi da quelli che sognava chi vi ha partecipato.

Che cosa ci fa uno dei gruppi protagonisti della rivoluzione egiziana all’interno di un’as­sociazione voluta dal Dipartimento di Stato Americano e sponsorizzata dalle maggior aziende statunitensi? Che ruolo ha svolto una scuola di Belgrado che tiene corsi su come rovesciare i dittatori? Perché Washington ha addestrato blogger tunisini, egiziani, libici, yemeniti e siriani e fornisce loro software contro la censura? Chi si nasconde dietro gli account di Facebook, Twitter e Youtube che invitano alla ribellione? Come mai gli stessi uomini che hanno combattuto per rovesciare il regime in Libia si ritrovano in Siria? E per­chè le Monarchie del Golfo hanno mandato milioni di dollari ai ribelli? Quale peso infine hanno avuto agenti segreti, addestratori militari e forze speciali occidentali? Dietro alla “Primavera araba”, che dal 2011 sta cambiando volto ad una delle aree più ricche di risor­se del pianeta, emergono scenari inquietanti. Questo libro, attraverso un rigoroso lavoro d’inchiesta e un viaggio nelle rivolte del Nord Africa e del Medio Oriente, cerca di fare luce sui retroscena svelando storie e intrighi davvero sorprendenti.


mercoledì 21 marzo 2012

L'anima dei semafori.



Come glielo spiego al mio amico afgano? Come gli spiego che vengo da un paese dove smontano i semafori per togliergli la polvere e lucidarli?  Che vengo da un paese dove le uniche telecamere che filmano un po' di vita vera sono quelle "nascoste" che la vita ce la spiano? Come glielo spiego, al mio amico afgano, che per lucidare un semaforo ci lavorano in otto e per otto ore? Cosa gli rispondo quando mi chiederà se è tutto a posto, da questa parte del mondo, da dove vengo io? Gli dirò che è tutto a posto? Mi devo inventare una risposta. E credo che, a grandi linee, sarà questa: vengo da un posto speciale,  dove i semafori hanno un'anima. Devono averla. Altrimenti perché li coccolano? Non sono in vena, in questo periodo, ma questa notte garantito che mi arrampico su un semaforo e ci passo un dito. Se ci trovo della polvere io di tasse non ne pago più. Vado a pagarle in Afghanistan.

Fibre vuote.


Posso arrabbiarmi? Col sorriso? Anzi: ridendo? Ogni volta che torno a casa dai miei viaggi, me li trovo sotto la finestra. Succede da qualche tempo. Uomini rana, o uomini topo (il Vietnam...) e un regolatore del traffico (un aguzzino). Traffico che sotto casa mia non c'è mai, perlomeno non dopo che è scesa la notte. Se ne stanno li' un po' di tempo: caschi in testa, torcia da minatore. Vestiti d'arancione catarifrangente come ricci che non vogliono essere schiacciati in autostrada. Dopo lunghe boccate alle sigarette (si fanno coraggio) scendono nel tombino: l'unico sotto casa mia. Poi riemergono, tirando un filo stretto fra le mani. Dove lo tireranno questo filo? Non si capisce. Sono convinto si tratti di fibre ottiche. Alta velocità: informazioni, idee, comunicazioni, innovazioni che circolano (dovrebbero circolare) alla rapidità della luce. Un controsenso, in Svizzera. Ticino incluso. Ogni volta che ci torno mi accorgo che qui tutto procede al ritmo di una lumaca rallentata dalla colla sulla traccia. I pensieri, le idee, le passioni, le avversioni, le resistenze, la vertigine intellettuale del rischio. La-pancia-piena-di-farfalle-per-la-sfida, il gusto del nuovo che ti dà una botta di vita, e la botta di adrenalina che ti fa sentire vivo perché hai finalmente detto quello che vedi. La realtà osservata con occhi diversi. Il pensiero contro. Sprazzi di luce. Niente. Notte. Il Ticino è una promessa di allineamento. La Svizzera la sua celebrazione. Vieni al mondo allineato. E' nel genoma locale. Affinità elettive col pensiero debole. Guardo i giovani: pieni di vita e di creatività. La scuola (ripeto: la scuola), per come è organizzata, questa creatività gliela spegne. Dopo la scuola ci pensano le aziende, i datori di lavoro, i dirigenti, i responsabili di settore, l'establishment, quelli-che-la-sanno-lunga-perché-è-una-vita-che-sono-qui, quelli-che-meglio-fare-quello-che-ti-dicono-perché-a-pensare-con-la-tua-testa-ti-fai-male, eccetera. Trendsetters, scouters, uhuhuh.... Fai un salto nel tombino e ne vieni fuori con le fibre ottiche. Sei forte. Ma guarda bene: dentro non scorre nulla. Nulla. La luce dei riflettori alla velocità della luce: sul vuoto.

martedì 20 marzo 2012

Una perfetta solitudine.

(c) 2012 Donatella Luca

Questo disegno è un regalo di una lettrice, Donatella. Ispirato a una fotografia che era a suo tempo finita su questo Blog. Il titolo è: "L'attesa". Non facciamo altro, nella vita. Quando al telefono rispondiamo di essere sotto zero col tempo, quando dal BlackBerry ci parte una mail con tre parole senza verbi per dire che "sorry, no time", anche quando abbiamo il fiatone che arriva dall'alta parte del filo o dell'etere e a malapena riusciamo a dire nella cornetta del telefono (esiste ancora?) "butto giù un boccone e continuo a lavorare, sarà per un'altra volta".  Aspettiamo amici, colleghi, persone sconosciute. Amori. Aspettiamo che le promesse vengano mantenute. Aspettiamo che qualcuno si accorga di noi. Aspettiamo di essere capiti. Per me l'attesa più bella è quella che precede l'incontro con una persona che ha accettato di parlarmi. Di raccontarmi qualcosa: la sua vita, la sua versione dei fatti, le sue bugie, le sue speranze, le sue previsioni. La sua voglia di restare in vita. La sua paura di restare da sola. La sua rabbia verso il mondo. La sua scatenata ironia. I suoi dubbi. La sua ragionevole follia. Il suo dolore. La sua incolmabile fame di attesa. L'attesa è sempre uno stato di perfetta solitudine. L'attesa è specchio di quello che siamo dentro. Il disegno restituisce questo vuoto d'altro.

lunedì 19 marzo 2012

Contro. Per passione.

(c) 2012 weast productions

Qualche sera fa ero a cena con Robert Fisk, in un ristorante in riva al mare, a Beirut. Abbiamo parlato di molti argomenti. Anche di che cosa significhi essere giornalisti oggi, in un'epoca dove la definizione sembra essere di esclusivo dominio di chi si interessa di calcoli e cifre e molto meno (direi: niente affatto, o come scriverebbe Montanelli: punto) di chi persegue (per natura e per passione) una restituzione della realtà che consenta di aprire gli occhi, di distinguere il farsi della tenebra luce (accettabile anche una distinguibile penombra) o perlomeno di non farsi prendere per fessi. E così' ci siamo trovati a scambiare qualche parere sul soldato (sergente maggiore) americano che in Afghanistan avrebbe, da solo (da solo?), assassinato 16 civili. Robert Fisk mi diceva che nemmeno sotto tortura avrebbe, lui,accettato di credere che fosse l'opera di un pazzo, di uno squilibrato. Di un soldato stressato. La definizione di "terrorista" spetta sempre e soltanto agli altri, ai cattivi. Mai ai "buoni". Se un "buono" ammazza, è sempre perché: o si è sbagliato, o era sottoposto a grave stress psicologico. Robert Fisk stava covando QUESTO articolo. Il pensiero come resistenza significa essere contro: contro le verità cucinate al microonde degli spin doctors, contro l'idea che la realtà sia quella che vedi. L'indole di un curioso sfugge per natura alla comprensione dei contabili.

sabato 17 marzo 2012

La testimonianza di Hadil.

(c) 2012 weast productions / gg


Avevo parlato, con una fotografia, della storia di Hadil, dissidente siriana. QUI il link al suo intervento alle Nazioni Unite a Ginevra (lunedì' 12 marzo), e QUI la sua testimonianza trasmessa dal Telegiornale RSI. Il link BBC sul rapporto di Amnesty circa le torture praticate nelle carceri siriane.

venerdì 16 marzo 2012

Il pensiero come resistenza.

(c) 2012 weats productions / gianluca grossi
Sabato 17 marzo nel Senso del Taccuino (La Regione): l'artista egiziano Georges Bahgory,  pittore, scultore e vignettista satirico. Che dice: "salvate Ali Farzat, vignettista siriano, a cui il regime vorrebbe tagliare le mani." Il pensiero come resistenza. 

venerdì 9 marzo 2012

Il guardiano delle creature.

Al Cairo succede che se cerchi un grande artista e non hai il suo numero di telefono, cerchi la strada dove sai che abita (dove ti hanno detto che abita) e ci vai. Davanti alla porta - aperta - trovi un inserviente, intento alle pulizie. Dice che il maestro non è in casa, ma di salire comunque, così, chissà che magari salti fuori dal nulla. Gli egiziani sono fantastici. Non resisti e scatti due inquadrature nello studio, stupendo e traboccante di creatività, di arte, di quella che dovrebbero avere tutti: passione. Passione per qualcosa.  Per il proprio lavoro. Per la vita. Sul tavolo, per caso, mentre stavi per lasciare al maestro un biglietto con il tuo numero di telefono, trovi un biglietto da visita con il suo numero di telefono. Dietro di te si materializza l'inserviente. Gentilissimo chiede se vuoi tè o caffè. Ma capisci che è il guardiano delle creature del maestro. Un maestro chiamato Georges Barghory. Di cui parlerò' presto in un articolo. 

(c) 2012 weast productions / gg

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Cairo: l'urlo dei graffiti.

(c) 2012 weast productions / gianluca grossi 

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Tutto il sospeso della rivoluzione. Tutte le ansie. Tutte le frustrazioni. Tutti i sogni. Tutte le aspettative. Tutta la rabbia. E tutta la fame di futuro. Finiscono sui muri del Cairo. Perché su Twitter e Facebook hanno prodotto soltanto una rivoluzione a metà, dicono i giornalisti dei muri.

mercoledì 7 marzo 2012

La lacerazione. E la forza.

(c) 2012 weast productions / Gianluca Grossi
Questa ragazza è un'attivista siriana. In fuga. Ricercata. Racconta di essere stata: imprigionata. Torturata. Abusata. Dalle forze di sicurezza. Vive nascosta. Braccata. L'ho incontrata e racconterò presto la sua storia, mi auguro al Telegiornale. E la seguirò nelle settimane a venire con la telecamera e la macchina fotografica. Per testimoniare la sua vita. Per l'8 marzo è l'immagine che propongo, che lo staff di Weast Productions propone, insieme a me. Per il senso di riscatto e resistenza che esprime. La lacerazione. E la forza.

sabato 3 marzo 2012

Vite dalla Siria.

(c) 2012 weast productions / gg

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I bambini profughi, le donne fuggite da Homs, il capitano dell'esercito regolare passato all'esercito di liberazione e ferito in battaglia. Appesa alla parete, la fotografia del fratello, ucciso nell'inferno di Homs. I laptop per mettere in rete immagini e notizie dei cittadini giornalisti. Vite dalla Siria.

Libertà

(c) 2012 weast productions / gg
Desidero ringraziare tutte le persone che mi hanno fatto gli auguri di compleanno in questi giorni, sul Blog e soprattutto per email. Sono in giro per lavoro, con poco tempo e poche occasioni di prendermi cura della posta. Allora lo faccio qui, con affetto, attraverso questa fotografia: una ragazza siriana con in braccio sua figlia, nata da poco. Il suo nome è Libertà.

venerdì 2 marzo 2012

Domani 3 marzo nel Senso del Taccuino sulla Regione: Metamorfosi dell'esistenza.


(c) weast prouctions / gg