Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

martedì 31 gennaio 2012

Per Renato.

E' morto Renato Porrini. Un collega che lavorava al Telegiornale.  Alla famiglia, a chi gli era vicino le mie più' sentite condoglianze.

Renato Porrini

sabato 21 gennaio 2012

Il fumo mi ha allungato la vita.

(c) citizen journalism / Il rottweiler nel momento descritto 
Non so se si puo' scrivere un titolo come questo. Non so piu' che cosa si puo' fare e cosa non si puo' fare, dire e non dire. Lo dico comunque, al passato prossimo: il fumo mi ha allungato la vita. Qualche giorno fa. Quando, svoltato l'angolo di una strada che stavo percorrendo, mi sono trovato di fronte un rottweiler. Ho detto: un rottweiler, non un barboncino. Teneva al guinzaglio la sua padrona, una brava ragazza di corporatura normale. Non appena mi vede,  la bestia mira, come un cecchino, al mio fianco sinistro. La mandibola-tenaglia va pero' a finire sulla tasca del mio giaccone, Dentro ci sono, come sempre, due o tre pacchetti di Marlboro rosse. Le ha azzannate. Ho sentito, al rallentatore acustico, il suono dei pacchetti che si spezzavano sotto i denti della bestia, ho percepito il sacrificio delle sigarette.  Come tanti soldatini in fila mi hanno difeso. E hanno salvato il mio fianco innocente. Il fumo mi fa bene. Mi ha addirittura allungato la vita. Il cancro spero se lo sia preso il rottweiler.

Due mondi.



Oggi sono stato in due mondi. Mi interessa il secondo. Ma la prendo larga e racconto anche il primo. Inizio dalla visita al negozio di prodotti biologici e "meditativi": non ci andrei mai, non per altro, ma perché mi hanno sempre dato l'impressione, sin da bambino, quando mi ci trascinava mia madre alla ricerche di macchine per fare gli yogurt in casa (gli yogurt in casa!), di essere - mi perdoneranno tutti, dico: TUTTI - dei posti da "softies". Oggi - oggi! - ero rimasto senza incenso. E siccome sono dipendente dall'incenso, ho fatto quello che da fumatore ho fatto in passato pur di fumarmi una sigaretta prima di andare a dormire quando ero rimasto senza: chilometri. Quindi: entro nel negozio e capisco subito di essere troppo su di giri rispetto all'atmosfera che regna nel piccolo tempio incastrato dentro la città. Significa: che sono troppo di fretta, troppo deciso, troppo diretto, troppo ad alta voce. Troppo vivo. Scendo di tono. Di tutto. Ora sono: calmo, rilassato, consapevole, mediamente deciso,  relativamente vivo. 
- C-e-r-c-a-v-o  d-e-l-l-'- i-n-c-e-n-s-o....
 - Ssssss.... Piano, che mi svegli i clienti. In fondo a sinistra. 
Mi fiondo e per fortuna me ne accorgo prima. Troppo veloce. Rallento. Sott'acqua raggiungo l'espositore degli incensi. Prendo il primo che mi capita sotto mano: tibetano senza legno. Pago (lentamente) e (lentamente) lascio il tempio del biologico.  
Ora sono davanti alla vetrina di un libraio. E di questo, in realtà, volevo parlare sin dall'inizio. Il libro che mi colpisce è quello che riporto nella fotografia sopra. Ci metto un secondo e nell’ordine: entro, scarto, sfoglio, decido, pago. Ciao. Anzi no. Commento: il sottotitolo non torna. Poi vedremo perché.
Solo. Finalmente. E moooooolto velocemente solo. Apro il libro (edito da Contrasto e dalla Fondazione Umberto Veronesi). Guardo. Guardo. Divoro le immagini, molte già note, ma sempre straordinarie nell’impaginazione, nel ritrovarle, nel contatto fra cio’ che ti sta davanti e l’archivio del cervello che si sveglia a velocità folle.
Un altro mondo. Quello vero. Finalmente. E velocementeeeeeeee. Il mondo che succede ogni giorno. Niente finzioni: del biologico che “è anche una politica di vita”, della lentezza “che la vita te la allunga”,  del sottovoce “che fa stare bene tutti”,  del profondo rantolo di un lontano ma “sempre presente didgeridoo".
La vita è questa. Dentro queste fotografie. Dedicate alla memoria di due fotografi recentemente scomparsi su uno scenario di guerra (Libia) e che Faccia da reporter aveva a suo tempo ricordato e onorato: Tim Hetherington e Chris Hondros. 
Riporto un passaggio della prefazione di Denis Curti (foto):
 E’ parte della mia battaglia, della mia ossessione, di cui in questo blog ho a più riprese parlato. L’energia sovversiva delle immagini. Dall'altra parte della barricata  l’ipocrisia di chi rifiuta di ammettere che esista.
Cito ancora una frase riportata nella prefazione, è di Walter Benjamin: “non vi è mai documento di civiltà che non sia al tempo stesso documento di barbarie”.
Perché non mi convince il sottotitolo? Dice: "90 fotografie dai principali conflitti nel mondo per dire basta al dramma della guerra." Due (fra i numerosi) motivi. Primo: per dire basta - davvero basta - ne basterebbe una di fotografie.  Ma non basterebbe comunque. Secondo: dire "basta al dramma della guerra" mi fa pensare all'esistenza (per quanto ipotizzabile) di una guerra "senza dramma". All'illusione di una guerra pulita, decente, sopportabile. Sarebbe bastato scrivere: "per dire basta alla guerra". E non sarebbe comunque bastato.

mercoledì 11 gennaio 2012

Un collega



French TV France 2 reporter Gilles Jacquier becomes the first Western journalist to die in Syria's unrest, during a government-authorised trip to Homs.

lunedì 9 gennaio 2012

Faccio anch'io insider trading. E m'illumino di fango.

(c) 2012 weast / Mio padre: gli ho fatto guadagnare 1.95 franchi sul cambio.

Ho saputo da Twitter in tempo reale delle dimissioni di Philipp Hildebrand, presidente della Banca nazionale svizzera. Ero chino su carte fiscali, concentrato nella ricostruzione del destino che avevo riservato a ogni centesimo speso nel corso dei miei viaggi di lavoro nel 2010. Un dollaro all'autista, un dollaro all'informatore, un dollaro all'interprete. Giustificare tutto. Ce lo chiedono ogni giorno, le istituzioni, lo Stato. E va bene, a denti stretti, incazzati di brutto perché alla fine avanza ben poco da investire in idee e in produzioni indipendenti. Ma va bene. Pero' ti arrabbi quando qualcuno, vicinissimo a un personaggio che incarna il franco svizzero (lo stesso franco che tu devi giustificare nel dettaglio quando, dopo averlo guadagnato onestamente, lo spendi col contagocce, per fare il tuo fottutissimo lavoro o per farti i cavoli tuoi) o il personaggio stesso con consorte, con due click di mouse ne guadagna 100mila in un colpo solo. Sfruttando le informazioni confidenziali di cui il personaggio in questione ha il professionale privilegio, o magari soltanto sognandole,  o magari ancora cogliendole da un mormorio prodotto dal meritato sonno notturno del guerriero, o chissà, copiate il mattino davanti a un tè di lusso dalla lavagna in cucina su cui erano finite ore prima mentre il depositario veggente masticava un mezzo pollo freddo strappato al frigo dopo essere stato colto da comunissima (almeno questa) fame notturna. E quando questo qualcuno (questo personaggio) dice che non ne sapeva niente mentre i click passavano, avvolti dal feltro per non fare rumore, per non farsi notare,  sul suo conto personale ti metti a ridere. Non va bene, soprattutto coi tempi che corrono. E va ancora meno bene quando questi ragionamenti, come sta succedendo sulle TV svizzere, vengono definiti da alti rappresentanti della politica e del mondo della giustizia, "fango". Chi, nella nostra società, rivendica il diritto di chiedere conto a chi fa un lavoro importantissimo e guadagna una marea di soldi, una marea spropositata e moltiplicabile a suon di click, viene tacciato di untore. Denigrato. La stampa, quando svolge il suo ruolo, viene criticata, ridicolizzata, attaccata. Criminalizzata. Piace, ormai, soltanto una stampa in ginocchio. E ce n'è in giro troppa. Vogliamo dire che la insegnano questa stampa? Vogliamo dire che è materia curricolare? Vogliamo dire che questa stampa: la stampa che sta zitta è la stampa che si augurano i poteri forti, banche, economia e informazione stessa? Diciamolo.

Questa sera spiegavo a mio padre (che comunque l'aveva capita prima di me) la vicenda Hildebrand. Eravamo a cena. Un pezzo di formaggio di piccole dimensioni si trasforma sul tavolo in un pezzo di formaggio più grande: i franchi si fanno dollari. E poi il pezzo di formaggio grande diventa mezza pagnotta di pane (i dollari che ritornano franchi, ingigantiti). E la pagnotta di pane diventa una casa. Costruita sui soldi guadagnati con le migliori intenzioni, ci mancherebbe. E con la più totale trasparenza. Ci mancherebbe ancora. Capito?

Ho detto a mio padre che avrei preso la moneta con cui mi paga l'aperitivo, quando ci vediamo, togliendola dal portafogli come fosse d'oro, per portarla in banca. Sei franchi. Cambiati in dollari. E poi ricambiati in franchi. Per un totale finale di franchi 7.95. Guadagno complessivo sull'investimento valutario: 1.95 franchi. Non sono il direttore della Banca nazionale svizzera né tantomeno ho il cervello di sua moglie: ma coi cambi ci so fare anch'io.

domenica 8 gennaio 2012

Click divini


A Gaza vive una ragazza che fino a due anni fa se ne andava in giro in sella a una moto. Vestita da uomo. Lunghe scorrazzate meccaniche in sella a un bolide d'acciaio lungo la Striscia. L'avessero scoperta lo avrebbero detto a: 1. i suoi genitori; 2. i suoi vicini; 3. tutti gli abitanti della Striscia. Le conseguenze sarebbero state: 1. arrabbiatura cosmica dei suoi; 2. sgomento dei vicini; 3. ammirazione della gente, in particolare della popolazione femminile (la maggioranza nella Striscia). Questa ragazza ha smesso di andare in moto. E di travestirsi da uomo. Troppo rischioso: non a causa di Hamas (che riuscirebbe ancora a beffare), ma dei salafiti, aderenti a una dottrina dell'Islam intollerante e oscurantista, trapiantata a Gaza da chi aveva interesse a farlo. Un po' come da noi, anni fa, qualcuno ha pensato coltivare kiwi. Non sono arrivati da soli, per capirci. Bene. La ragazza, abbandonata la moto, ha deciso di continuare il suo lavoro (fa la fotografa) senza ricorrere a mentite spoglie. Porta avanti così la sua rivoluzione. Ho ancora nelle orecchie il rombo della motocicletta.

Oggi, a Gaza, sono cambiate parecchie cose. Ad esempio: alcuni amici che salutavano con un “marhaba” (salve, buongiorno) preferiscono, soprattutto negli uffici dei ministeri e dell'amministrazione pubblica, un piu' consono “as-salamu alaykum” (la pace sia sopra di te), un saluto decisamente e opportunamente connotato religiosamente nella Striscia gestita da Hamas. Svanito il rombo della ragazza centauro, ascoltando bene ho percepito nell'aria un suono timido, ma insistente. Click. Un suono assolutamente nuovo. Mi ha incuriosito al punto da spingermi a seguirlo.

Click. L'ho avvertito, nettamente, mentre stavo scattando una serie di fotografie nell'ospedale psichiatrico di Gaza. Una istituzione dentro la quale mi ero messo alle calcagna della follia, quella innata (se esiste) e quella indotta dalla guerra, generatrice di mostri e di incubi che non distinguono fra il giorno e la notte. Click. Esco dalla sezione dei matti tenuti come prigionieri dentro celle simili a spoglie stanze della tortura, matti ricoperti di tonnellate di ovatta prodotta dagli psicofarmaci, percorro un lungo corridoio che sa di urina e feci, mi allontano verso la zona dei matti meno matti, dei bambini e degli adolescenti che soffrono di turbe del comportamento, di autismo, di depressione e di molto altro ancora: hanno visto parenti morire, bombe esplodere, fosforo bianco bruciare tutto. Giungo nella stanza della terapia di gruppo. Click. Ecco l'origine di questo scatto metallico. Scopro che si tratta di un piccolo contatore simile a quello con cui sugli aerei il personale di bordo verifica che il numero di passeggeri corrisponda alil numero di biglietti emessi. Scopro, per farla breve, che si tratta in realtà di un conta-preghiere, un'invenzione recente. Se lo tiene al dito una giovane assistente sociale che mi guarda divertita, consapevole del motivo della mia curiosità. Click. Click. E click. Questo racconto è dedicato al piccolo aggeggio elettronico che, a mio modo di vedere la realtà nella Striscia, non è molto diverso, nella sfida simbolizzata, dalla motocicletta della ragazza fotografa.

Chiedo alla giovane assistente sociale se, di sera, terminata la giornata, invia le sue preghiere a Dio. Voglio dire, il numero di preghiere recitate. E se per farlo utilizza internet. Scoppia a ridere. “No, non è fatto per questo! Quella fra me e Dio è una relazione spirituale”. Click. Rania porta al dito l'anello tecnologico. Un elegante contatore con display digitale azionato da un pulsante lucido colore acciaio. Click. A Gaza sono i primi in circolazione. Rania e la sua amica e collega Samira sono anticipatrici di una tendenza: scommettono che presto di questi anelli ne gireranno molti. E che altre donne li porteranno. L'anello ha sostituito la subha, il rosario islamico. Una collanina, diffusissima, che sono soprattutto gli uomini a tenere in mano, a passarsi fra le dita. Le donne la tengono nella borsetta. Composta di 33 grani di vetro, plastica o legno, la subha è utilizzata per la preghiera del dhikr, il ricordo incessante di Dio, la ripetizione del suo nome, ogni giorno e in ogni istante del giorno, secondo tre formule: “Gloria a Dio”, “Dio è grande”, “Sia lodato Dio”. Con questo nuovissimo contatore fai un click per ogni lode pronunciata. Click, click, click. Sul display di Rania la somma raggiunta è di 460 e sono soltanto le undici di mattina. “Se oggi arrivi, poniamo, a 100, domani, azzerato il contatore, cercherai di migliorarti e così via”.

Rania, che ha 23 anni, e Samira, che ne ha 38, lavorano come assistenti sociali all'Ospedale psichiatrico di Gaza, si occupano soprattutto di bambini affetti da patologie mentali, causate dalla guerra, dalla violenza che regolarmente si abbatte su Gaza e che a Gaza quotidianamente si consuma. Un loro collega maschio ha portato con sé cinque contatori da un recente pellegrinaggio alla Mecca; il padre di Samira ne ha portati due. Tecnologia saudita al servizio della religione, del rapporto fra l'individuo e il divino. Da un paese che impedisce alle donne di guidare la macchina, di uscire sole, di mostrarsi pubblicamente se non avvolte in metri di stoffa nera, non ti aspetteresti la commercializzazione di un vezzo, di un gadget femminile. A colpire sono i colori: giallo, blu, azzurro, rosso. Questi contatori sono pensati per le donne, per consentire azzeccati accostamenti con l'hijab, il foulard che molto spesso costituisce l'unica nota di fantasia nell'abbigliamento femminile tradizionale, oppure con il nero calato addosso a donne guantate.

Samira non è d'accordo con la mia definizione di accessorio alla moda: “quando uso il contatore mi sento in relazione diretta con Dio, mi ricordo di Dio e chiedo perdono per i peccati”. Mi chiedo di quali peccati potrà mai macchiarsi una donna a Gaza. “Dio mi ricompenserà”, continua Samira. “Il suo regalo può arrivare durante o dopo la vita terrena.” Basta però guardare come lo tiene al dito, come lancia rapide occhiate al contatore, per capire che a Samira il rosario elettronico piace e che è soddisfatta dell'accostamento cromatico con il quale è uscita di casa questa mattina. “Lo metto sempre su un dito della mano sinistra – spiega Samira – rispetto al rosario è più semplice da usare, non ti tiene le mani occupate. Ti ricorda anche di lodare Dio, basta un semplice click ogni volta che lo hai pensato, che hai pronunciato il suo nome.” Click. “Il contatore elettronico è accettato anche sul lavoro – continua Samira -  è meno visibile della subbah tradizionale, del rosario, lo scambiano per un accessorio, un orologio, un anello”.  Click. “E' un rosario per i giovani, per la nostra generazione”, racconta ancora Rania. I maschi, i colleghi di Rania e Samira, osservano incuriositi dal colore del contatore e distratti dalla grazia con la quale le due donne lo hanno trasformato in una parte naturale delle loro mani. Che strano. Click. Curioso. Click. Un oggetto autorizzato dalla Mecca e dai massimi rappresentanti religiosi sauditi, custodi di una visione conservatrice (eufemismo) dell'Islam, produce un'attenzione estetica, un indugio di occhi maschili timidamente dissimulato. Un'attenzione che fonde curiosità e ammirazione. La constatazione di un abbinamento riuscito fra un contatore azzurro e un hijab dello stesso colore rivaluta il piacere della contemplazione terrena riservata a una donna, certo non a tutto il suo corpo (in questo caso il corpo non entra in questione), ma a una parte del suo corpo, questo certamente. Non ci sarebbe nulla di nuovo se non si trattasse della forma moderna di uno strumento che, per quanto meccanicamente, svolge il suo ruolo nella connessione spirituale fra l'individuo e Dio. Insomma, se non si trattasse di un rosario islamico elettronico. Unghie perfettamente curate che sbucano da abiti lunghi pensati per nascondere il corpo delle donne, volti splendidamente truccati incorniciati dal velo che nasconde i capelli, occhi vellutati dal rimmel quando il velo lascia scoperti soltanto quelli, scarpe alte scelte con cura che sbucano da svolazzanti vesti che arrivano alle caviglie (e oltre) costituiscono da tempo il modo con cui alcune donne (le piu' coraggiose) rivendicano (addirittura esasperandola nel particolare) la propria femminilità come elemento identitario, non esclusivo ma integrante della loro esistenza. Nuovo invece è il gioco, sottile, tutto levantino, che si innesca fra il significato religioso del contatore e la sua valenza estetica. La duplicità che si insinua nella funzione originariamente pensata. Il contatore, messo al dito di una donna che da come è vestita corrisponde appieno all'immagine che la società da lei si aspetta (e perché no, anche alle sue individuali convinzioni), si trasforma in anello colorato e come tale, rivendicando la sua funzione estetica, relativizza l'esclusività del significato religioso. Relativizza, non cancella. Il contatore è un rosario per le preghiere, ma è anche bello e, anzi, diventa bello quando indossato da una mano femminile. Nessuna valenza esclude l'altra. Ciascuna, invece, rivela l'esistenza dell'altra in sé. Del bello, del piacere (estetico) nel religioso, del religioso nel bello. Quanto ne sono consapevoli Rania e Samira? Del tutto, credo, nemmeno loro. Non potrebbero, non sarebbe accettato. E anzi non lo accetterebbero nemmeno loro. Samira ci tiene a spiegarmi che “la religione è la vita” e che lei vive “per esprimere la religione e per trasmettere agli altri i principi che questa religione” le ha insegnato. La stessa Samira aggiunge che usa il contatore – click – “quando è preoccupata o nervosa o per chiedere a Dio che le mandi un po' di denaro.” La preghiera, totalizzata nel computo elettronico quotidiano, cosi' simile alle preghiere di chi, a migliaia di chilometri da Gaza e dall'Islam, in sostanza chiede al divino le stesse cose. La sfida, costituita dall'anello-rosario, sta tutta nella suo valore estetico e, direi, mondano. Al dito di ragazze che comunque vestono in modo conforme ai canoni religioso-culturali di una società conservatrice, il contatore elettronico condensa il significato di una rivendicazione: l'espressione della propria femminilità affidata a un oggetto “religioso” non costituisce peccato. Così come non lo costituivano i chilometri macinati a cento all’ora dalla ragazza vestita da uomo in sella a una moto. Anche quelle corse a perdifiato erano, in fondo, una preghiera: lo erano nella richiesta di proteggerla da schianti e incidenti, affidata a un divino la cui dimensione non ho mai chiesto alla ragazza di specificare, ma comunque invocato. Sono convinto che si tratti di un segnale importante. Da registrare e da tenere presente. La rivoluzione – quella che porterà la vera democrazia nelle società arabe – passa (deve passare) attraverso le donne.


giovedì 5 gennaio 2012

Il mondo non lo racconti mai abbastanza.

Queste le fotografie che Weast Productions ha candidato al concorso Swiss Press Photo della Fondazione Reinhardt - Von Graffenried per il 2011. (c) Weast Productions, tutti i diritti riservati.


KENYA (profughi somali)





















Somalia











Rivoluzioni arabe