Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 11 giugno 2011

Contrabbandieri di verità


(c) 2011 weast (fotografia scattata in Egitto)
Il telefono suona a vuoto. Rispondeva sempre al secondo squillo. Gli SMS restano muti. Non era mai successo. La sola vista del mio numero sul dispay del cellulare deve metterle brividi di paura, ne sono sicuro. Tutta la Siria è prigioniera dell’agghiacciante morsa del terrore. Una chiamata dall’estero intercettata dallo spionaggio interno ti fa passare per spia o, se ti va bene, per individuo da sorvegliare.  Brutta aria. Non era un contatto, era un’amicizia, una conoscente che in Siria ha una vita brillante, un lavoro invidiato. Volevo sapere come sta, se ha deciso di andare all’estero o se invece resterà fino alla fine. Niente. In Siria c’è però chi la paura l’ha superata. E’ un momento irreversibile: si varca una soglia e non si torna più indietro. E’ un’esperienza comune a tutti i giovani che nel Medio Oriente e nel Nord Africa hanno fatto o stanno facendo la loro rivoluzione. E’ diventata anzi una frase che si sente ovunque: “abbiamo abbattuto il muro della paura”. Soltanto così è possibile scendere per le strade e protestare, davanti a centinaia di poliziotti, a centinaia di militari, davanti a agenti in civile armati di fucili, davanti agli shabiha (gli “spettri”), le milizie paramilitari fedeli – per corrente religiosa – alla casta al potere (gli alawiti), che non rispondono agli ordini di nessuno, perché sanno cosa devono fare. Agiscono e basta. Chi protesta sa che potrebbe essere ucciso. In tre mesi i morti civili in Siria sono stati oltre mille indicano le organizzazioni per i diritti umani. Chi non ha più paura si è trasformato nei nostri occhi, negli occhi del mondo intero, e ci consente di vedere, a sprazzi, dentro un paese chiuso ai giornalisti, alle organizzazioni umanitarie, ai testimoni. In Siria, ancora più che altrove, si è consolidato un movimento di giovani che escono di casa per filmare con il telefonino ciò che accade. Questi giovani si riconoscono nel valore di una missione collettiva: documentare ciò che accade davanti ai loro occhi. Hanno il coraggio delle immagini. E’ un’etichetta, ma per una volta si sottrae alla inevitabile superficialità delle semplificazioni e rende invece giustizia al lavoro di questi testimoni. Le immagini raccolte vengono depositate tramite cellulare su server esterni. Per fare questo e per sfuggire alla censura e ai controlli o per ovviare all’assenza di segnale (spento dalle autorità) i giovani utilizzano, dove disponibili, reti telefoniche non siriane, quella libanese, quella giordana, quella turca. Queste immagini escono anche via terra, portate da chi è disposto ad assumersi il rischio di farlo. Lo chiamano contrabbando di verità. Successivamente le sequenze girate con i cellulari vengono montate e contestualizzate da altri attivisti, che vivono fuori dalla Siria, in Egitto, ad esempio, o altrove. A un giovane siriano contrabbandiere di verità ho chiesto, recentemente, di togliermi il dubbio professionale che queste immagini possano, eventualmente, essere contraffatte, che si tratti di un tentativo di manipolare l’opinione pubblica internazionale. Il ragazzo, sorpreso dalla mia richiesta, mi ha risposto che poteva dirmi il nome di ogni strada, di chi ci viveva, la successione di botteghe e caffè, il nome di ogni località nelle immagini che stavamo guardando insieme. Me lo aveva spiegato con profonda partecipazione: se avesse potuto mi avrebbe portato lì, sul posto, oltre lo schermo del suo laptop. Ho avuto l’impressione che la sua esistenza si fondesse con le scene filmate che mi stava mostrando, con le sparatorie, i civili  brutalmente picchiati, i feriti dai quali la vita se ne stava andando. Chi contesta l’onestà di queste immagini (il governo di Damasco, i suoi sostenitori, alcuni ambienti siriani, anche in Svizzera) dovrebbe fare pressione sul presidente Bashar al Assad affinché autorizzi i giornalisti a entrare nel paese, a essere testimoni diretti. Altrimenti continueremo a pensare che il governo siriano ha qualcosa, molto, tutto da nascondere. E a credere a chi, a costo della propria vita, ha scelto di informare il mondo con il coraggio delle immagini. (Pubblicato in La Regione, 11 6 2011)

1 commento:

  1. Cosa intendi dicendo anche ambienti siriani in svizzera? Ti riferisci a comunità siriane presenti sul nostro territorio? O cos'altro? Se non risiedono in patria è per un disagio captato da tempo? E allora perchè mettere in dubbio questa presuntà drammatica realtà? Forse ci sono altri interessi di mezzo?

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