Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

martedì 28 giugno 2011

20 infiniti minuti

20 minuti, cara Donatella, possono essere interminabili. Dipende come li trascorri. D'accordo su quanto dice, ma la pubblicazione in questione non credo sia destinata a parlare di vite lontane, né tantomeno di chi se ne fa narratore. Mi auguro, tuttavia, che in quei 20 minuti ci facciano stare le vite vicine. C'è così tanto da raccontare anche sotto casa, dietro l'angolo, in città. Non lo fa nessuno. Leggo i giornali locali e mi dico che è carta buttata, per nulla. Non c'è racconto, curiosità, voglia di scoprire storie, apertura all'altro. Non c'è nulla. Si va avanti convinti della stessa storia di sempre, inventata da chi ha il fiato corto: che siamo piccoli e che non succede niente. Credo, invece, che manchi soltanto la fantasia. Che non è immaginazione. E' un modo di vedere oltre la realtà, per raccontarla meglio.

La spalla e la telecamera

Un male pazzesco eppure così familiare alla spalla destra (la spalla della telecamera) mi ha tenuto lontano dal Blog. Non appena il cervello mi  torna nella testa (ci sta tornando...) mi rimetto a scrivere. Ma è importante che scriva chi da questo indirizzo ci passa, ogni tanto. Ho inserito una funzione che mi consente di verificare i post prima di pubblicarli. Non è è un intento censorio, è soltanto una precauzione antispam. A presto.

20 minuti

Ricevo da Donatella questo testo e la foto acclusa in reazione al mio post che linkava a Tim Hetherington:


20 minuten, 20 minutes, 20 minuti. Il giro è concluso.
Società di consumo, informazione di consumo. Informazione che si usa, poi si getta. Informazione ridotta ad un Kleenex.
Mi chiedo solo se chi legge questo tipo d’informazione (incluso la sottoscritta) sa o si ricorda che i giornalisti per documentare conflitti, violazioni dei diritti umani, speranze d’interi popoli, e ben altro, rischiano libertà o vita e a volte perdono l’una o l’altra. Valgono più o meno di 20 minuti ?

Donatella

mercoledì 22 giugno 2011

Stringimi amore

(c) 2011 weast productions
Ho mangiato una pizza. Questa sera. Al ristorante. Accanto a me,  due uomini. Lo ammetto: ho ascoltato, tutto. Parlavano di tiro obbligatorio e di tiro non obbligatorio, tiro di piacere, l'uno e l'altro affrontati con passione. Insomma, due a cui piace sparare a un bersaglio con un'arma da fuoco. La descrivevano, come fanno un po' tutti in Svizzera, con riferimento all'anno di produzione. Un 97, un qualcosa d'altro. A parte che fa rumore e che se hai una casa vicino a un poligono di tiro dai di matto, sparare può avere un suo fascino. E' un esercizio di concentrazione. Al quarto boccone di pizza mi sono detto che, uguali ai due signori accanto a me questa sera in pizzeria, chissà quanti ce ne sono in giro in Svizzera di innamorati del moschetto e del poligono. Amori dichiarati o meno che siano. E poi mi sono chiesto ancora che cosa, miracolosamente, trattiene tutta questa gente dallo spararsi addosso. E infine ho concluso, andando in altra direzione, che c'è un potenziale bellico spaventoso fra questi cecchini della domenica: anche in pizzeria. Il fucile è la loro playstation: scaricano, insieme al caricatore, la voglia di farsi a pezzi sul serio.  Il fucile è la loro bambola gonfiabile. Cosi' facendo relativizzano la funzione dell'arma di cui parlano e che usano e quindi delle armi in generale. Un'arma che nel weekend stringono, non ho dubbi, più appassionatamente che le loro mogli o compagne.  Feticcio e giocattolo, amante e fidanzata ideale. Uno strumento di morte diventa  attrezzo sportivo, scappatella dichiarata. "Amore, vado a sparare un paio di caricatori al poligono..." E ci vanno davvero, non è nemmeno una scusa. Quando questi snipers vedono in TV un ragazzino che in Africa piuttosto che in Medio Oriente stringe un Kalashnikov fra le mani commentano, increduli e scandalizzati. Ma se glielo spiego io, a quei ragazzini, che nel mio paese la gente va a sparare senza avere un vero nemico di fronte, scuotono la testa e dicono che i matti siamo noi.

martedì 21 giugno 2011

Tim e il vento della vita

Vorrei suggerire questo LINK, è un corto firmato da Tim Hetherington, fotografo, cameraman e regista, ucciso in Libia mentre faceva il suo lavoro due mesi fa circa. Me lo sono guardato e riguardato, ora lo segnalo, riesco a segnalarlo. Riduco le parole, in questi giorni, anche la luce: diventa una piacevole penombra e ricarica. Ringrazio tutte le persone che hanno postato commenti, ho qualche difficoltà tecnica a farlo individualmente.

domenica 19 giugno 2011

Il cancellino sui profughi

(c) 2011 weast productions / ayse erdem
La Turchia li nasconde. L'ambasciatrice di buona volontà Angelina Jolie si è nascosta nascondendoli ancora di più. I profughi siriani sono invisibili, o quasi. C'è un disegno dietro questo cancellino applicato alla realtà. Lasciare che il mondo si nutra soltanto delle immagini girate con il telefonino dentro la Siria e di quelle rubate nei campi profughi della Turchia. La primavera siriana (se ne esiste una: personalmente sono convinto che esista) è tenuta in una dimensione di quasi virtualità. Ma è reale. I profughi sono reali o stiamo sognando? Per chi è interessato c'è QUESTO slide show, pubblicato senza commento parlato. Solo immagini. Solo profughi. Perché ci sono, o ci stiamo sbagliando tutti?

La pelle che conta

(c) 2011 weast / ayse erdem
(c) 2011 weast / ayse erdem
L'ho attesa per ore, in Turchia. Davanti a una ex fabbrica di tabacco con dentro centinaia di profughi siriani e insieme a centinaia di giornalisti e telecamere. Si è fatta vedere alla fine, per 15 secondi. Un braccio alzato a salutare, gli occhi forse commossi osservati al rallentatore. Facciamo anche questo lavoro: attendiamo le star che portano umanità. Avrei voluto soltanto sentire il suo parere su questa curiosa concomitanza: l'operazione "visita ai profughi siriani" a Angelina Jolie deve avere portato anche parecchi soldi, poiché lo stesso giorno sull'ultima pagina di un diffusissimo quotidiano turco è stata pubblicata una foto di Angelina seduta in mezzo alla natura, fra i piedi una borsa da viaggio. La pubblicità della Louis Vuitton. Angelina Jolie ne è la testimonial mondiale. Un affare con la pelle che costa, sulla pelle dei rifugiati. Se si fosse concessa un minuto per una domanda avrebbe magari potuto dire, per il sollievo di tutti (o perlomeno mio) che i soldi ricavati dalla pubblicità a tutta pagina andavano all'assistenza ai profughi siriani. Nel video weast productions, l'arrivo di Angelina al campo profughi turco e la sua partenza (unico momento in cui si è mostrata). Alle domande, chiaramente, non aveva alcuna voglia di rispondere. Adesso vi chiederete perché pubblico così tante foto di Angie, indirettamente stando al suo gioco, e cioè pubblicità, immagini, disseminazione globale: semplicemente perché dopo aver passato 11 ore e mezzo ad attenderla, un paio di scatti riusciti (meglio che ai colleghi) li devo mettere online. Per togliermi lo sfizio professionale della preda immortalata. Per guardare il video in qualità superiore cliccate QUI.

giovedì 16 giugno 2011

Avventura di confine

Sono in Turchia per raccontare le storie dei rifugiati siriani che sono fuggiti dai loro villaggi.  Con una guida (a sinistra in questa foto) ieri sono riuscito a entrare in territorio siriano. A un certo punto, mentre di nuovo ci eravamo avvicinati al confine turco, una pattuglia di soldati (turchi) ci ha fermati. Siamo rimasti in stato di fermo, la guida, la mia interprete e io, per sei ore e mezza. Trattati bene ma con fermezza dai soldati e dalla polizia militare. Anche la guida, un siriano rifugiato, è potuto restare in Turchia: "se mi fanno rientrare in Siria, mi ammazzano", mia ha spiegato. Aveva il terrore dipinto sul volto mentre me lo diceva, sembrava davvero sincero. Questa "avventura" mi ha permesso di vedere i profughi dalla parte siriana del confine, quelli che in Turchia non vogliono entrare per non diventare rifugiati a tutti gli effetti. Vivono allora nei campi, in Siria, in modo improvvisato e precario (bambini, donne incinte, famiglie intere). Alcune fotografie di rifugiati nella città di Yayalada (in Turchia) le trovate qui.

sabato 11 giugno 2011

Contrabbandieri di verità


(c) 2011 weast (fotografia scattata in Egitto)
Il telefono suona a vuoto. Rispondeva sempre al secondo squillo. Gli SMS restano muti. Non era mai successo. La sola vista del mio numero sul dispay del cellulare deve metterle brividi di paura, ne sono sicuro. Tutta la Siria è prigioniera dell’agghiacciante morsa del terrore. Una chiamata dall’estero intercettata dallo spionaggio interno ti fa passare per spia o, se ti va bene, per individuo da sorvegliare.  Brutta aria. Non era un contatto, era un’amicizia, una conoscente che in Siria ha una vita brillante, un lavoro invidiato. Volevo sapere come sta, se ha deciso di andare all’estero o se invece resterà fino alla fine. Niente. In Siria c’è però chi la paura l’ha superata. E’ un momento irreversibile: si varca una soglia e non si torna più indietro. E’ un’esperienza comune a tutti i giovani che nel Medio Oriente e nel Nord Africa hanno fatto o stanno facendo la loro rivoluzione. E’ diventata anzi una frase che si sente ovunque: “abbiamo abbattuto il muro della paura”. Soltanto così è possibile scendere per le strade e protestare, davanti a centinaia di poliziotti, a centinaia di militari, davanti a agenti in civile armati di fucili, davanti agli shabiha (gli “spettri”), le milizie paramilitari fedeli – per corrente religiosa – alla casta al potere (gli alawiti), che non rispondono agli ordini di nessuno, perché sanno cosa devono fare. Agiscono e basta. Chi protesta sa che potrebbe essere ucciso. In tre mesi i morti civili in Siria sono stati oltre mille indicano le organizzazioni per i diritti umani. Chi non ha più paura si è trasformato nei nostri occhi, negli occhi del mondo intero, e ci consente di vedere, a sprazzi, dentro un paese chiuso ai giornalisti, alle organizzazioni umanitarie, ai testimoni. In Siria, ancora più che altrove, si è consolidato un movimento di giovani che escono di casa per filmare con il telefonino ciò che accade. Questi giovani si riconoscono nel valore di una missione collettiva: documentare ciò che accade davanti ai loro occhi. Hanno il coraggio delle immagini. E’ un’etichetta, ma per una volta si sottrae alla inevitabile superficialità delle semplificazioni e rende invece giustizia al lavoro di questi testimoni. Le immagini raccolte vengono depositate tramite cellulare su server esterni. Per fare questo e per sfuggire alla censura e ai controlli o per ovviare all’assenza di segnale (spento dalle autorità) i giovani utilizzano, dove disponibili, reti telefoniche non siriane, quella libanese, quella giordana, quella turca. Queste immagini escono anche via terra, portate da chi è disposto ad assumersi il rischio di farlo. Lo chiamano contrabbando di verità. Successivamente le sequenze girate con i cellulari vengono montate e contestualizzate da altri attivisti, che vivono fuori dalla Siria, in Egitto, ad esempio, o altrove. A un giovane siriano contrabbandiere di verità ho chiesto, recentemente, di togliermi il dubbio professionale che queste immagini possano, eventualmente, essere contraffatte, che si tratti di un tentativo di manipolare l’opinione pubblica internazionale. Il ragazzo, sorpreso dalla mia richiesta, mi ha risposto che poteva dirmi il nome di ogni strada, di chi ci viveva, la successione di botteghe e caffè, il nome di ogni località nelle immagini che stavamo guardando insieme. Me lo aveva spiegato con profonda partecipazione: se avesse potuto mi avrebbe portato lì, sul posto, oltre lo schermo del suo laptop. Ho avuto l’impressione che la sua esistenza si fondesse con le scene filmate che mi stava mostrando, con le sparatorie, i civili  brutalmente picchiati, i feriti dai quali la vita se ne stava andando. Chi contesta l’onestà di queste immagini (il governo di Damasco, i suoi sostenitori, alcuni ambienti siriani, anche in Svizzera) dovrebbe fare pressione sul presidente Bashar al Assad affinché autorizzi i giornalisti a entrare nel paese, a essere testimoni diretti. Altrimenti continueremo a pensare che il governo siriano ha qualcosa, molto, tutto da nascondere. E a credere a chi, a costo della propria vita, ha scelto di informare il mondo con il coraggio delle immagini. (Pubblicato in La Regione, 11 6 2011)

venerdì 10 giugno 2011

La realtà percepita

(c) 2011 weast productions


Ricevo da una lettrice, Leila, tre testi, via email. Mi ha confessato di avere incontrato difficoltà nel pubblicare da sola, allora non sono soltanto io a fare a pugni con questi ostacoli (a volte).  Il testo che pubblico si riallaccia alla discussione che si sta sviluppando sul blog relativa alle IMMAGINI. Le opinioni espresse, in questo caso come altrove, sono di chi scrive e si firma, ospite del blog. Il soggetto a cui si riferisce Leila è visibile facendo click QUI. Si parte:


La premessa è che nessuna immagine mi passa indifferente. Quelle forti non mi danno alcun fastidio se, quello che vedo, è veritiero ed inequivocabile. Le prendo per “buone”. Se mi impressionane, cerco di elaborarle emotivamente. Poi trovo le immagini estetiche, come le chiamo io, paesaggi, persone, contesti, insomma tutta quella serie di immagini gustabili senza alcuno sforzo.
Arrivano poi le immagini che io definisco “basse” “meschine” (al di là di quelle volgari per le quali non entro nemmeno nel merito). Quelle subliminali.
Mi spiego.
Proprio di recente, a seguito della denuncia nei confronti di Dominique Strauss-Kahn  per la presunta (finché non ci sarà un verdetto vige la presunzione d’innocenza per tutti) violenza sessuale usata nei confronti della cameriera, se ne vedono delle belle.
Nelle foto di questi giorni il signor SK (abbrevio) si presenta all’uscita del tribunale a braccetto con la moglie. Ora, se il tutto va per il meglio - e cioè che SK non ha usato violenza ma che la cameriera era consenziente come sostiene lui – cosa ci dice l’immagine? Vediamo il facoltoso ed ex-Direttore generale FMI, attaccato a sua moglie che, se il tutto va sempre bene, è comunque elegantemente una donna tradita. Ma cosa ci potrebbe dire la foto se vado oltre? Che, se la moglie è così comprensiva, paziente (gli sta a braccetto insomma la didascalia lo indica esplicitamente) forse addirittura la cameriera potrebbe aver provocato il signor SK. Quindi lei colpevole, lui vittima.
Non posso esserne certa ma qualcuno potrebbe leggerla così.
Questo non mi piace. Queste non sono le immagini che voglio vedere. È un’immagine inutile, fuorviante. Distoglie dal fatto, confonde, è ambigua.
Se voglio essere informata vorrò sapere come sono andate realmente le questioni fra SK e la cameriera. Punto e basta. Della moglie e della suite affittata provvisoriamente per gli arresti domiciliari a NY m’interessa poco.
Non ho in mente di aver visto foto della cameriera. L’avranno pure cercata per un servizio, uno scoop … nulla. Di lei c’è solo la sua denuncia ed è l’informazione che abbiamo.
Torno alle immagini che propone Gianluca. Di recente un servizio da Il Cairo. Un siriano in fuga e intervistato. Gli serve l’anonimato per non mettere in pericolo la sua incolumità. Ha infatti filmato in patria, scene repressive.
Immagini: una mano con una sigaretta, un piede che dondola … Cosa mi dicono queste immagini? Il ragazzo siriano è agitato, preoccupato forse addirittura intimorito.
Sono immagini inequivocabili. Queste sono le immagini che voglio vedere. Voglio poter avere la percezione di una realtà. Leila 09.06.2011

Fuori dal coro

Due citazioni per ricordare che la discussione che vuole l'informazione praticata oggi sempre più schiava del sensazionalismo, degli scandali cavalcati gratuitamente, della leggerezza e del disimpegno a scapito della profondità e della serietà non è un prodotto dei tempi nei quali viviamo. Oltre 50 anni fa, due grandi fotografi esprimevano pareri attualissimi. Anticipavano i tempi? O sottolineavano, con straordinaria lucidità, l'ambiguo atteggiamento di editori, poteri forti, di chi prende le decisioni su cosa pubblicare e come? Oppure, ancora, da giornalisti che lavoravano con le immagini, constatavano il senso ultimo di un conflitto: quello fra la missione di un mestiere e di chi più che farlo lo vive e la vita che, affamata anche di superficialità, va avanti, sempre, nonostante le guerre, le rivoluzioni, le vittime della storia, grande o piccola che sia. Per leggere le scansioni qui di seguito fate click sulla foto diventa più' grande. I passaggi in questione sono quelli segnati in matita o biro dal sottoscritto. Mi piace vivere dentro i libri che leggo lasciandoci delle tracce. Credo che così facendo anch'essi si sentano vivi.

Werner Bischof, fotografo svizzero, membro della agenzia Magnum scriveva nel 1952:
Nel 1956 il fotografo Erich Lessing, fra i primi ad entrare a Budapest dopo l'inizio della rivoluzione in ottobre, scrive:




Nel 1956 Erich Lessing, altro fotografo, è fra i primi a giungere a Budapest e a documentare la rivoluzione. Quella del fotografo è un'altra interessante "rivolta interiore":




Tratto da MAGNUM. Fifty Years at the Front Line of History, di Russel Miller,Grove Press New York, 1997.

giovedì 9 giugno 2011

"Non toglieteci Gheddafi!"

Mi sono chiesto se sia possibile fare satira in tempo di guerra. Guerra moderna. Quella delle bombe (NATO in questo caso, in Libia) che esplodono che tu nemmeno le senti arrivare, nemmeno gli aerei senti arrivare, volano troppo alti. Mi sono chiesto se sia possibile fare satira quando questa guerra uccide delle persone, civili e combattenti, da una parte e dall'altra della linea che divide gli amici dai nemici. Ho concluso di si', guardandomi in giro. La satira ha per protagonista Muhammar Gheddafi. A firmare la satira che mi interessa sono vignettisti arabi, uno in particolare, Ashraf Hamdi, uno dei piu' noti autori di vignette e cartoons nel mondo arabo. La sua stessa storia personale suscita il sorriso, come la satira: suo padre, un commerciante egiziano con i soldi, era convinto che dovesse studiare qualcosa di utile, altro che accademia di belle arti o roba simile. Utile.... Avvocato, ad esempio. Ashraf non se la sentiva. Economista allora. Ashraf stava male. Il padre, presa la decisione definitiva, una sera ha convocato il figlio: farai il dentista! E Ashraf da dentista ha studiato. Non ha mai praticato la professione. Oggi fa il vignettista. E i suoi denti non sono proprio in quello che si definirebbe uno stato impeccabile. Me lo ha detto lui, sorridendo senza complessi, aggiungendo che Gheddafi è il suo (e non soltanto suo) soggetto preferito.

mercoledì 8 giugno 2011

La speranza di Gadisie

Corre, leggera e inarrestabile. Ti dà l'impressione che non si fermerebbe mai. Ti viene da dirglielo, okay, fermati, hai corso abbastanza. Quando è ferma i suoi occhi guardano chissà dove, ma lo capisci, sono altrove, nel passato o nel futuro. Entrambi, da quanto ho capito, non promettono nulla di buono. Ho conosciuto Gadisie Meghersa recentemente, una giovane richiedente l'asilo etiope che è arrivata in Svizzera circa tre mesi fa. A tempo di record le è stata presentata la decisione dell'Ufficio federale della migrazione e quella - dopo ricorso - del Tribunale amministrativo federale: per Gadisie niente entrata in materia, niente asilo. Torna a casa. Ciao. Ora attende che vengano a prenderla e che le notifichino il via, che in realtà è già sulla carta. Gadisie pero' un passaporto non ce l'ha (dice di averlo dovuto consegnare al passatore che dalla Francia l'ha fatta entrare in Svizzera). Quindi nessuno può costringerla a tornare nel suo paese, perché il suo paese non è tenuto ad accettare il fatto che sia etiope. Il futuro di Gadisie, se nulla cambierà, è quello di una clandestina. Siccome corre per passione (e per quella che, visto il talento, potrebbe essere la sua professione) è difficile che passi inosservata. Un bel problema per una clandestina. Mi chiedo che cosa farà Gadisie, se smetterà di correre, che cosa sceglierà di fare. Perché nel suo paese dice di non volere, di non potere tornare, perché finirebbe in prigione o le capiterebbe qualcosa di non augurabile. Gadisie è una Oromo, e per praticità rinvio a questa scheda, invitando chi è interessato ad approfondire anche altrove l'argomento della persecuzione a cui è esposta  questa popolazione dell'Etiopia. In Ticino Gadisie ha avuto e ancora ha la possibilità di uscire dal centro nel quale vive e di allenarsi ogni giorno, correndo. Dopo averla conosciuta e avere ascoltato la sua storia ho deciso di raccontarla, con un filmato, di cui non so ancora la durata, gli sviluppi, le implicazioni. Non voglio raccontare i suoi mille passi quotidiani a corsa, anche se nel traile rla vedrete correre: la corsa è la sua vita. Voglio raccontare la sua storia, quella che lei, piano piano, avrà voglia di raccontarmi. Se ce ne sarà il tempo. Ho pubblicato qui un breve trailer girato durante un allenamento sotto la pioggia e qui alcune fotografie di Gadisie. Credo non sia un caso isolato, ma la sua storia è importante. Va raccontata, tenuta presente, soprattutto in un momento nel quale gli umori della popolazione ticinese (in particolare a Chiasso) sono condizionati dagli atti di aggressione / violenza commessi da alcuni richiedenti l'asilo. Gadisie non ha nulla di violento.  Corre. Si allena. Vorrebbe continuare a fare l'atleta, a vincere le corse a cui partecipa. E' fragile e tosta.

lunedì 6 giugno 2011

Vedere da dentro. Pubblico la testimonianza di Xenia (parte prima).

Non sono un non vedente, o un diversamente abile, sono cieco.

 Usate pure questa parola, perché per me non è offensivo, è ciò che sono.
Sarebbe come dire ad  una persona bassa che è diversamente alta... saprebbe di presa in giro vero?!?

 Nella mia vita, succedono, cose bizzarre.
Un giorno ero tranquillamente fermo sul marciapiede, con il mio bastone bianco, improvvisamente vengo preso per un braccio e mi ritrovo dall'altra parte della strada...la realtà, è che io stavo aspettando mia moglie non era mia intenzione attraversare la strada...non ho detto nulla, perché mi sembrava scortese, ma quell'azione mi ha creato più problemi...

Ricordatevi di chiedere, oppure semplicemente sappiate che se ci serve una mano, la chiediamo....

Il mio avvicinamento alla casa per ciechi è stato a tappe la prima volta quasi per caso, un corso di formazione per lavoro, il relatore, Sig. Bertoli presidente di UNITAS.
Il suo approccio è stato così spontaneo e sotto un certo aspetto ironico, che quando alla fine del corso ci ha informati della possibilità di una visita al buio di casa Andreina con poi possibilità di cenare sempre al buio, mi è sembrata la cosa più naturale da fare.

Ho esteso l'invito a delle persone a me care, e ci siamo ritrovati in 17 tra i 25 e i 70 anni, tutti con un unico scopo, EMOZIONI.

Posso dire che è stata un'esperienza, che auguro a tutti di fare.
Le sensazioni sono strane.

Conosciamo le persone che si prenderanno cura di noi nelle prossime ore: Camilla e Luigi.

Ci viene spiegato che inizialmente le sensazioni possono variare: disorientamento, nausea, mal di testa, paura,...in qualsiasi caso è sufficiente chiamare e restare fermi in modo da da essere raggiunti con facilità.

Così, in piccoli gruppi in fila indiana con le mani sulle spalle di chi ci sta davanti attraversiamo, prima una porta e già qui è buio e poi al tatto, una tenda. Sento le mani sulle mie spalle stringere, e mi accorgo che anche le mie sono rigide, sulle spalle di chi mi precede...
ECCO, QUESTO È IL BUIO. - Xenia -

Vedere da dentro (parte seconda).

I miei occhi, cercano di mettere a fuoco qualcosa, una cosa qualsiasi, ma non trovano nulla ed iniziano a farmi male, così decido di chiuderli, mi rilasso un po'.

I suoni, sembrano tutti una confusione, voci e voci, ma non ne capisco la provenienza cerco un viso, uno sguardo mi sembra di stare in una stanza troppo affollata..ecco il disorientamento.

Piano piano tutti trovano un posto.
Scopro subito l'importanza, di chiamare tutti per nome, poi la testa si muove a destra e a sinistra perché l'educazione ti insegna a guardare in faccia alle persone, ma c'è solo una voce in quella direzione.

Camilla e Luigi, sono persone straordinarie, che ci raccontano tanto della loro vita. Ci invitano a fare domande anche le più banali: tutto ha una risposta.

Scopro stupita che sono molto autoironici, c'è chi ha chiesto se il Sig. Bertoli, visti i suoi tanti impegni politici sia un presidente presente, risposta: " ah ma nüm al vedom pö mai...

La serata si è conclusa con la cena, bicchieri sopra il coltello, a destra del bicchiere bottiglia d'acqua, tovagliolo sotto forchetta, nel vostro piatto trovate carne a ore 6, patate a ore,..

È difficile ragazzi trovare il mangiare nel piatto , o sapere quanta acqua hai nel bicchiere, senza infilarci un dito,...Lo ammetto ho mangiato il mangiabile con le mani e bevuto dalla bottiglia.

A loro, basta darsi una voce, per sapere in che punto sono della stanza...per me ha dell'incredibile.
Io sento la necessità di toccare, la sedia, chi è seduto al mio fianco, quasi una conferma di non essere sola...mi ritrovo con le lacrime agli occhi perché sono felice di queste emozioni.

Il ritorno alla luce è stato graduale, ma da tutti percepito con fastidio...prendiamo visione della stanza che chi ha ospitati: è piccola più piccola di quanto avessi pensato, anche la disposizione dei tavoli è diversa. Che strana la mente...

Alcune settimane dopo ricevo una mail da casa Andreina: era la copia vocale della lettera di ringraziamento che abbiamo spedito...i miei occhi, si riempiono nuovamente di emozioni... - Xenia -

domenica 5 giugno 2011

Squadra speciale

(c) 2011 weast productions
Oggi non ho tempo per dedicarmi alla scrittura. Pubblico questa foto, che ho scattato in Afghanistan. La intitolo "Squadra speciale". Un uomo, in bicicletta, e suo figlio sul portapacchi, con in mano una pistola. Credo fosse di plastica. Quando andavo a scuola mi capitava di dare o di chiedere un passaggio a qualcuno: si finiva sempre sul portapacchi dietro (zero motorino). Ci sentivamo, sfrecciando nel traffico di Bellinzona, una "squadra speciale". Solo che Bellinzona non è Kabul. E nessuno di noi aveva mai - dico mai - sentito il bisogno di impugnare una pistola.  A Kabul quasi tutti i ragazzini girano imbracciando armi terrificanti. Sono di plastica. Ho sempre percepito, guardandoli ogni volta, la loro impazienza che diventino vere.

sabato 4 giugno 2011

Storie di barbiere

(c) 2011 weast productions
La storia - breve - in immagini di una bottega da barbiere davvero speciale. Dove lavorano e si incontrano persone di cultura, lingua, religioni diverse. Un riassunto del mondo. Ciascuno ha la sua storia. Ciascuno l'ascolta. Ciascuno la commenta. Storie di fughe, di partenze verso il lavoro, di guerra alle quali sfuggire, di vite rimaste a metà e poi ricominciate.

venerdì 3 giugno 2011

Pubblico il messaggio inviato da Milena (con sua autorizzazione). Lo ha intitolato "Monologo al femminile".



Il messaggio di Milena si riferisce al mio post su Aisha Abibi e sulla verità sopportabile in immagine. Eccolo, scritto nell'italiano musicale e straordinario di una persona che ha un'altra lingua come madre:

Caro Gianluca,
queste sono le mie interogazioni ad "alta voce", mio modo diverso di vedere molte cose, sulla pianeta terra. 
Non vorrei essere fraintesa , tutto il mio rispeto e solidarietà  per il dolore di donne corragiose  come Aisca Abibi, pero vorei dire una  mia osservazione dopo aver letto queste parole navigando in  internet, non sono molto coerente sull tema ma leggevo questo :
"...alla ragazza, il Time dedicò una copertina e ora ha ricevuto il premio, l'Enduring Heart Award appunto, che la fondazione Grossman Burn consegna alle donne coraggiose vittime della barbarie umana."
Mio pensiero subito andava verso quelle donne che ho incontrato sulla mia strada, di quelle donne che ho visto piangere e gridare anche nelle nostre piazze di giorno (anche di notte) , sfrutate al massimo, ma oviamente per educazione ... nessuno le chiedeva niente, hanno sentito chi è.... detto da lei stessa piangendo mentre parlava  con qualcuno al telefono ..
Poi quelle donne  mutilate dentro , senza poter dimostrare  loro cictrice interene, se non con dei colori di propria  anima sulla pelle dannegiata ... quante donne non c'e` l` hanno fate di essere "brave " , corraggiose ... ?
 Sara forse loro colpa perche erano debole, perche dovevano reagire da sole, perche non laureate, perche si sono scelte loro .... come sento spesso  parlare donne di "sucesso",  pero stranamente quelle donne vanno soltanto in vaccanza ad abbronzarsi a loro paesi a una condizione  pero` che la  situaziopne è sicura e che non ci sia in vista qualche guerra ....
 Per non parlare pio di quelle straniere ,brave, diventate Swizzere grazie ai suoi maritini e morosi che proclamano bonta... tirando l`aqua a suo mulino pero`...
Mi piange cuore quando sento certe notizie ,done rinchiuse , espulse, stroncate da indiferenza e brutalità da chi sta bene o non avevano fortuna di incontrare "salvatori"...?
Ma bisogna essere sulla croce per essere riconosciuti in questo mondo, a vantagio da chi  ?
Secondo me verità si, mostrata si, pero` esiste anche segreto professionale, una Legge snitaria che dovrebbe proteggere pazienti ,vittime,  secondo loro consensi e diriti ... ma in caso di guerra , rifugiati sono pazienti di chi, di quale terra, di qualli diritti...?
Ma che triste, quando il cuore diventa soltanto un muscolo per certe persone .....
Concludo con queste parole di Gandi :
«Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo» (Gandhi)
Luce e Amore
Io coloro il mondo con dei colori di cuore e non cosi come questo mondo abbia ferito me  ..
Milena

Novità

I miei scatti dai miei viaggi. Da osservare e commentare.

giovedì 2 giugno 2011

Quanta realtà ti va?

(c) weast productions
Sto organizzando qualche idea in merito al tema: che cosa vogliamo mostrare in TV o nelle fotografie pubblicate su riviste e giornali? Ne sento la necessità dopo che, ancora recentemente, ho notato, espressa in articoli e discussioni con colleghi, una non celata propensione alla censura nei confronti delle immagini forti. Immagini, in altre parole, che mostrano la realtà. Immagini che io chiamo vere. Sono convinto che vadano mostrate, perché raccontano la realtà. E se vogliamo documentarla, correttamente, questa realtà dobbiamo mostrarla. Disturba? Va bene. Inquieta? Va bene. Ti rovina la colazione davanti a una foto sul giornale? Va bene. Ti ammala la cena? Va bene, anche questo. Dovrei trovare il tempo per pubblicare domane. Se fra i miei lettori c'è qualcuno che nel frattempo vuole rompere il ghiaccio, con piacere. Intanto pubblico una fotografia, che ci consentirà di riflettere e discutere. E di concludere, magari, che non ci sono regole universali ma che le scelte operabili sono molte. Partendo dal presupposto - opinione mia personale - che nulla sia dettato dalla censura, peggio ancora dall'autocensura.

Riflessioni di un giornalista

(c) weast productions
Desidero aggiungere qualche riflessione al post precedente (profughi siriani). E chiamare in causa quello che è il mio mestiere, il giornalismo, per essere, fino in fondo, imparziale (se possibile). Se i profughi da Ginevra non si vedono, spesso non li vedono o peggio non li vogliono vedere nemmeno i giornalisti. I profughi sono, in questo caso, il tema dibattuto, ma gli esempi sono tanti. Voglio essere preciso: non li vede chi decide quali notizie pubblicare, approfondire, dare al pubblico. I profughi sono una popolazione che puoi incontrare in grande numero, un fiume umano in fuga; a volte, pero', ne incontri dei gruppi sparuti, spaventati e timidi. Fa notizia il fiume, non il rigagnolo che appena ci sfiora. Quando li incontri? Magari mentre ti avvicini al luogo dal quale poi manderai servizi, corrispondenze, immagini e articoli. Li incontri prima, e secondo una certa logica giornalistica sono loro, i profughi, "fuori posto". Sono arrivati troppo presto, potevano almeno aspettare il reporter, attenderlo li', dove lui è destinato. Sono partiti prima, allora non se ne parla. Ho sempre avuto idee diverse, in merito. Sono profondamente convinto che il giornalista che parte verso una destinazione dove viene combattuta una guerra, dove la popolazione civile soffre - ma anche un giornalista inviato su altro fronte - debba raccontare tutto quello che vede durante il suo viaggio. Raccontare, filmare e chiedere a chi decide, back home,  di trasmettere, di mostrare tutto. In questo modo anche i profughi in fuga troverebbero giustizia - per quanto minima - nel racconto che facciamo di loro. Anche se non sono piu' sul luogo dei combattimenti. Fosse per me manderei in onda anche gli incontri - quanto interessanti! - che si hanno con gli autisti, alla fermata in mezzo al deserto per un tè, e tante altre cose ancora. Trasformerei in racconto da offrire al pubblico (lettori, spettatori, ascoltatori...) tutto quanto vivo durante il mio viaggio di avvicinamento allo scenario di una guerra, di una crisi, di un terremoto, di qualsiasi altra cosa, di qualsiasi altra notizia. Cronaca spicciola? Ma quando mai. La vita, il senso dell'umanità, della giustizia e dell'ingiustizia, del dolore e della speranza, della disperazione e della forza è ovunque.