Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

mercoledì 4 maggio 2011

Quella frase da film del presidente Obama


Ieri stavo camminando quando ho notato una sensazione strana e nuova: mi sentivo piu’ sicuro. Sono stato a fare due acquisti e la sensazione di sicurezza aumentava. Anche pensare all’aereo che prendero’ fra qualche giorno mi faceva sentire sicurissimo. Tornato a casa ho acceso il televisore e ho capito: il presidente degli Stati Uniti Barak Obama stava parlando, mi parlava. Stava dicendo che dopo l’uccisione di Osama Bin Laden il mondo è diventato un posto piu’ sicuro per tutti.  Quindi, ho concluso, anche per me. Improvvisamente sono tornato a sentirmi come prima.  Quella frase da film - “il mondo è messo meglio oggi rispetto a ieri” - mi ha fatto uscire dall’illusione nella quale ero inavvertitamente inciampato.  Il presidente Obama vuole convincerci che il mondo resta diviso fra buoni e cattivi e che quindi (di nuovo: come nella finzione piu’ popolare) morto il cattivo il bene trionferà. Fosse stato Bin Laden a uccidere Obama, lo sceicco avrebbe probabilmente pronunciato la stessa frase. Dal suo punto di vista non avrebbe fatto una piega. Ma quanti di noi lo avrebbero preso sul serio? Perché credere a Obama? Ha rispolverato la visione manichea del mondo di bushiana memoria (buoni di qua, cattivi di là) che ha un obiettivo soltanto: assopirci, toglierci il desiderio di fare domande scomode, di scavare alla ricerca delle radici della verità. Anche delle radici del “male”, che molto spesso si intrecciano con le altre, le radici del “bene”. La morte di Bin Laden non ha reso il mondo piu’ sicuro e  piu’ giusto.  E per come la sua morte ci è stata annunciata e in parte spiegata il mondo non è neppure cambiato. Osama Bin Laden aveva dato un volto (il suo) e un nome (Al Qaida), globalizzando entrambi,  a un processo che, localmente, prendeva parallelamente forma in terra islamica: la religione vissuta non soltanto in termini spirituali, ma anche (soprattutto) come resistenza e come affrancamento individuale messo a disposizione dell’intera comunità.  Un processo aperto a qualsiasi tipo di manipolazione. Era toccato ad Abu Omar,  che intervistai, due anni fa, in un campo profughi palestinese in Libano. Era un arsenale che camminava, uno di Al Qaida: aveva combattuto in Iraq, contro americani e forze locali, aveva fatto esplodere bombe. Perché? L’ideologia di Al Qaida era giunta fino a lui e improvvisamente aveva colmato il vuoto della sua esistenza, gli aveva consegnato una missione, aveva dato un senso alla sua vita. Ancora oggi sono convinto che se qualcuno fosse arrivato prima di Bin Laden e gli avesse offerto un lavoro o un compito diversi, ma carichi di autentica affermazione individuale,  Abu Omar questa occasione l’avrebbe presa al volo.  Andiamo in Afghanistan. Meno di un anno fa avevo incontrato  una persona colta,  abituata a frequentare occidentali.  Alla domanda “cosa ne pensi degli americani e degli occidentali nel tuo paese” la risposta è stata una dichiarazione di guerra: “che se li portino via i talebani, che se li porti via Bin Laden”.  L’esistenza del mio interlocutore non era immersa nel vuoto, ma nella rabbia e nell’impotenza di chi, nel suo paese “liberato” dall’Occidente, non vedeva segnali di progresso e non coglieva i frutti della “liberazione” promessi dieci anni prima.  Bin Laden aveva col tempo insediato i suoi slogan anche in questi spazi di amarezza. Era diventato come l’aspirina: hai male, la prendi e aspetti che faccia effetto.  Spesso non serve a nulla, ma ti senti meglio comunque. In un carcere fuori Kabul avevo incontrato un giovane pachistano, aveva 18 anni. Lo avevano arrestato prima che si facesse esplodere. Perché lo fai? “Perché mi hanno spiegato che è un onore per me e la mia famiglia”.  Chi glielo aveva spiegato? Bin Laden, i suoi uomini? O, piu’ probabilmente, qualche oscuro istitutore che nelle scuole coraniche pachistane costringe ogni giorno, ligio al dovere, centinaia di bambini a recitare il corano ad alta voce, storditi al punto tale da assorbire qualsiasi idea, da eseguire, un giorno, qualsiasi ordine?  Sarebbe ingenuo pensare che non ci saranno piu’ Abu Omar dopo la morte di Bin Laden. O intellettuali con la vita a pezzi in un paese ingannato da promesse fasulle. Oppure ragazzini pachistani pronti ad esplodere. Il mondo va meglio?  Il mondo resta come prima.  Con i problemi e le ingiustizie che le frasi ad effetto  vorrebbero coprire.


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