Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

martedì 31 maggio 2011

Profughi non in vista


Sul sito web di Al Jazeera English leggo che i profughi siriani fuggiti in Libano dalla località di Tel Khelakh sono oltre cinquemila. Il governo libanese parla di "serious need for humanitarian aid". Ci sono stato, in questa zona, due settimane fa. Non si vede nessuno, a parte un piccolo autobus trasformato in clinica ambulante grazie al quale la Mezzaluna rossa libanese fornisce consulenza medica e qualche medicina ai profughi. Nessuna presenza di organizzazioni umanitarie internazionali. Nemmeno l'ombra dell'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. La foto che ho pubblicato sopra è la vista sul lago che si gode da un elegante ufficio dell'UNHCR (l'Alto commissariato dell'ONU per i rifugiati) a Ginevra. La sede dell'agenzia è proprio a Ginevra. Da li' i profughi siriani non si vedono. Chi è interessato puo' dare un'occhiata al reportage che ho girato lungo la frontiera fra Libano e Siria, messo in onda da RSI, SF e TSR.

Donne a confronto

(c) 2011 weast productions

Beirut, esposizione della World Press Photo. Una ragazza guarda la foto vincitrice del 2010, scattata in Afghanistan da Jodi Bieber per Time. La ragazza afgana fotografata si chiama Bibi Aysha ed è stata sfigurata come punizione per essere fuggita dalla casa del marito a cui era stata "donata" all'età di 12 anni. A Bibi Aysha sono stati amputati il naso e le orecchie. Non so se vale anche per la ragazza libanese che guarda la fotografia, non gliel'ho chiesto, ma numerosissime ragazze nel paese dei cedri si fanno operare il naso. Se lo fanno tagliare anche loro, volontariamente, per renderlo "piu' bello". Ogni giorno decine di operazioni. Mi aveva colpito questo pensiero, scattando la fotografia: il contrasto fra Bibi Aysha, che si era sottratta ai maltrattamenti dei famigliari di suo marito ribellandosi alla cultura e alle convenzioni di quella zona dell'Afghanistan, fuggendo di casa. Ha pagato tutto lei, in prima persona. E le ragazze libanesi, che si ribellano alla natura a suon di chirurgia plastica: pagano tutto i genitori.

sabato 21 maggio 2011

Prudenza, si uccide


La Svizzera, après coup, si allinea sulle posizioni dell'Unione europea e annuncia sanzioni contro 13 esponenti del regime di Damasco, presidente escluso. Varrebbe la pena ricordare che la Confederazione è depositaria delle Convenzioni di Ginevra, che possono essere applicate in senso esteso anche al caso siriano. Berna invoca, indirettamente, ragioni di realpolitik per la sfumata presa di posizione nei confronti della repressione delle proteste in Siria. Siamo un piccolo paese e facciamo una politica internazionale ancora piu' piccola.

Fumo negli occhi


Queste sono le sigarette che ho consumato ascoltando il discorso di Barack Obama sul Medio Oriente. Nessuna aspettativa è andata in fumo: non ne avevo. Ho trascorso gli scorsi giorni ascoltando giovani arabi parlarmi delle loro idee, dei loro progetti. C'è, in questi giovani, una straordinaria energia. Il senso della giustizia, in senso filosofico e pratico. I giovani hanno ascoltato Obama. Obama ha ascoltato questi giovani? Invito chi possa essere interessato a leggere Robert Fisk su The Independent (19 maggio): http://www.independent.co.uk/opinion/commentators/fisk/robert-fisk-presidents-fine-words-may-not-address-the-middle-easts-real-needs-2286077.html

venerdì 20 maggio 2011

Sei uomini e due donne





Speciale France 2 sul caso di Dominique Strauss-Khan. Al tavolo siedono sei uomini e due donne. Informazione al maschile.  E sa di vecchio.

lunedì 16 maggio 2011

Ricevo e pubblico

Altra frase del Presidente Obama : Justice has been done.
Quella frase mi ha lasciato in bocca un sapore amaro. Per me giustizia non è stata fatta, almeno non così. Sarebbe stata fatta se Bin Laden fosse stato processato.
C’è chi direbbe che non era possibile: ragione di Stato, necessità della lotta al terrorismo, evitare rivelazioni imbarazzanti, rischi nel gestire un prigioniero ingombrante, incapacità degli Stati Uniti di processarlo visto che in dieci anni quasi tutti i detenuti di Guantanamo aspettano di comparire davanti a un tribunale, ecc. Saranno buone ragioni, ma non mi convincono.
Un elemento fondamentale di una democrazia è quello di avere un stato di diritto che permetta a qualsiasi criminale di essere sottoposto ad un processo secondo la legge in vigore. Abbiamo oggi giorno un arsenale di norme nazionali, internazionali, persino un Tribunale penale internazionale, che avreberro consentito a Bin Laden di trovarsi davanti ai giudici per rispondere dei sui atti. Per altro, il modo in cui è stato giustiziato, da quel che ne sapiamo, rassomiglia molto ad un’escuzione extra-giudiziaria, cioè un’esecuzione che toglie arbitrariamente la vita di una persona in assenza di ogni sentenza da parte di un tribunale competente. Ciò costituisce una violazione dei diritti umani, che Bin Laden terrorista o no, criminale o no godeva. Per un paese come gli Stati Uniti che si presentano come paladini della democrazia e dei diritti umani è una bella contradizione; non è la prima, non sarà l’ultima.
Ma c’è un’altro aspetto più profondo, più umano. Quest’esecuzione porterà veramente e sinceramente pace ai famigliari delle vittime del 11 settembre? Non è loro stato negato la possibilità, anzi il diritto, di sentirsi dire le razioni di un odio tale da scatenare l’inferno delle torre gemelle, di conoscere i mecanismi di un terrorismo ceco, spietato, senza discernimento? Potranno attenuare il loro cordoglio quando il perchè della morte dei loro cari rimane senza risposta?
Giustizia è fatta legalmente e umanamente quando un tribunale ha emesso verdetto.

Donatella

Si', le foto sono mie.

The man, the moon, the Palestinian flag

(c) weast, 2011

sabato 14 maggio 2011

Geometrie dell'inesplorabilità

(c) weast, 2011

La prima volta

La madre, all'orecchio, le sussurra un ultimo consiglio. Fra donne. La sposa, agitata, lo custodisce come un viatico. Attorno, il padre e tutti i parenti. Manca lo sposo, arriverà a momenti. C'è ancora il tempo per sedersi, l'attimo in cui è stata scattata questa fotografia. Attorno, tutti quelli che non c'entrano, ma proprio non c'entrano, si scambiano congratulazioni e auguri. La sposa, ora, è seduta. Sulla spalla destra, scoperta, un tatuaggio. In arabo, siamo in Medio Oriente. Fa un bel contrasto con il vestito bianco e la pelle che un vero colore, forse, lo riacquisterà soltanto dopo. Dopo che la sposa e il suo uomo saranno stati nella stanza d'albergo che li attende. Per la prima volta. Per le prime due ore di intimità vera. Nella hall dell'albergo, la giovane sposa è attraversata dal senso di un esame da superare, dall'ansia di essere all'altezza, dalla curiosità di sapere come mai sarà questa cosa per la quale ha atteso (ha dovuto attendere, l'hanno fatta attendere) cosi' tanto tempo e proprio questo uomo. Mi immagino che il tatuaggio dica: che Dio me la mandi buona.

giovedì 12 maggio 2011

La musulmana e la (sua) birra

Una foto, rubata con il telefonino. La ragazza seduta al tavolo con davanti una birra alla spina. Se la gusta a piccole sorsate. Sulla destra della foto forse la madre, comunque una donna in nero col capo coperto. Anche la ragazza, che ha una keffiyah attorno alla testa, è musulmana.  Il bambino, sulla sinistra della foto, a un certo punto cerca di prendere il bicchiere alla ragazza per provare un sorso anche lui. Con un gesto fulmineo la ragazza gli sottrae il bicchiere. La birra è roba da adulti. E anche i peccati...

mercoledì 11 maggio 2011

Pugni amici

Al Cairo assisto a una lite tremenda. Un gruppetto di uomini e donne, alcune velate altre no, discutono animatamente. A gridare di piu' sono le donne Mi avvicino, cerco di capire. Sono cristiani e musulmani. Ciascuno cerca di convincere l'altro di contare, fra gli amici migliori, piu' vicini e piu' cari, persone di fede diversa. Il cristiano un musulmano, la musulmana una cristiana. Fanno quasi a pugni. Il Cairo è davvero una città unica. E straordinaria.

martedì 10 maggio 2011

Chi per passione, chi da pagliaccio

Dal Cairo,  per caso, guardo in TV il TG 1 della RAI alle ore 20. Servizio sulla Libia. Lo firma e lo interpreta una giovane giornalista, perfettamente in sintonia con il look dell'inviato che va ora di moda (sciarpa all'araba, stile keffyah ma elaborata), pantaloni con tasche ecc. Racconta di una avanzata delle truppe di Gheddafi verso Ashdabya (da dove pure firma la corrispondenza). Per documentare quanto dice inserisce alcune sequenze chiaramente tratte da filmati girati con dei cellulari. Fra cui uno, evidentissimo, di un autocarro con lanciarazzi multiplo. Il filmato era cominciato a circolare a Benghazi a fine marzo. Roba vecchia. La collega non spiega nulla. Fa anzi capire che quelle immagini le ha girate insieme al sua cameraman. Gente tosta. Giornalisti d'assalto. Due colleghi sono morti, poche settimane fa, a Misurata. Sono morti facendo non i pagliacci, ma davvero il loro lavoro di testimoni che rischiano la vita (e a volte la perdono) spinti dalla passione e motivati dal rispetto che nutrono per il loro lavoro e il pubblico. Giornalisti si nasce.

sabato 7 maggio 2011

Va di fretta...

Sfreccia davanti ai miei occhi preso da una gara con se stesso. E con i quattordici piani dell’albergo nel quale alloggio, in questa parte dell’est della Libia. Dove alloggio io e alloggia lui.  Il giornalista maratoneta. L’uomo fionda.  Sono le 6 e 30 del mattino, scendo per un caffè. Solitamente non vedo nessuno, troppo presto. E invece, questa volta, eccolo.
Scarpette da corsa, tuta attillata sul corpo e fascia attorno alla fronte.  Sta salendo le scale d’emergenza, quelle che normalmente si prendono in caso di incendio.  “Good morning”, oso buttare là. Non mi saluta, non ha tempo da perdere. E’ sudato, affannato, motivato.  Quante volte se le sarà fatte questa mattina queste scale? E quante volte dovrà farsele ancora prima di essere soddisfatto, di avere raggiunto il suo obiettivo?  E’ americano, lo capisco dalla t-shirt che indossa. Fra poco, dopo la doccia, inizierà la sua giornata di lavoro. Di corsa, anche quella.  Essere allenati serve a scappare più in fretta, quando la situazione si fa critica. Mentre scompaio nell’ascensore ho però ancora il tempo di pensare che anche la lentezza fa parte del nostro lavoro di giornalisti. La lentezza dello sguardo. Lentezza come tempo che riserviamo agli altri di cui raccontiamo la vita. Poi scompare anche lui. Il maratoneta indiavolato.

L'indifferenza della Presidente




La presidente della Confederazione Micheline Calmy-Rey aveva la scelta : partecipare o non partecipare ai funerali di André e Corrado, i ragazzi ticinesi rimasti uccisi nell’attentato di Marakkesh. Ha deciso di non partecipare. E’ un suo diritto, privato e istituzionale. Ma ha sbagliato.  La sua decisione dimostra l’inadeguatezza del personaggio nei confronti del ruolo che si trova a rivestire (ricordo, per quello che puo’ valere, che la sua elezione a presidente aveva a suo tempo toccato un minimo storico di voti, ma non si tratta di questo).  Ci sono momenti in cui un politico deve sapere decidere, senza indugi, per dimostrare che il suo mestiere non è fatto soltanto di calcoli e strategie.  Micheline Calmy-Rey avrebbe reso testimonianza profondamente umana e lanciato un segnale forte, di partecipazione e di unità del paese. Un paese che avrebbe cosi’ dimostrato di sapersi trovare nel dolore (e non soltanto il primo d’agosto), di essere in grado di partecipare alla sorte avversa che colpisce gli altri. Si sarebbe fatta interprete, la signora Calmy-Rey, di uno stile politico che osa uscire dai muri di palazzo, che sa ancora parlare alla gente e, nel toccare corde umane, scoperte dal dolore, è capace di farsi interprete di una esperienza collettiva del lutto, della disavventura, della tragedia.  Uno stile anche (soprattutto) umano. Per come si è espressa al TG 20 del 6 maggio su RSI (« non c’ero e se c’ero avevo altri impegni», sintetizzo), Micheline Calmy-Rey ha mostrato una superficialità fuori luogo e ha perso una duplice occasione: esprimere direttamente le condoglianze di Palazzo e dell’intero paese alle famiglie e agli amici dei due giovani e mostrare che la Svizzera esiste come tessuto umano e non soltanto come etichetta. Micheline Calmy-Rey, interpretando (testardamente)  un suo diritto, ha omesso di fare il suo dovere di presidente. 

giovedì 5 maggio 2011

Divagazioni di un viaggiatore

Uno

Barack Obama: “dopo l’uccisione di Osama Bin Laden il mondo è piu’ sicuro”.  Intanto i servizi segreti e le polizie americane e di tutto il mondo hanno alzato il livello di allerta. Si temono attentati, la rappresaglia della rete di Al Qaida. Il mondo non è, tutto sommato, un posto piu’ sicuro da viverci.  Qualcuno mi dice la verità?

Due

Teleprompter: chiamato anche “gobbo”.  E’ uno specchio che, sistemato su una telecamera, consente a chi si trova davanti di parlare al pubblico leggendo cio’ che dice senza tenere fogli in mano, dando al pubblico l’illusione di un flusso di parole che nascono naturalmente dall’improvvisazione. E dalla preparazione. Il suo inventore, Hubert J. 'Hub' Schlafly Jr. è morto all’età di  91 anni.  Secondo alcuni ha reso la televisione fruibile,  soprattutto i telegiornali, evitando ai presentatori di cadere vittime di indugi, pause troppo lunghe, indecisioni, papere clamorose.  Barack Obama deve al teleprompter la sua elezione: il presidente USA legge ogni suo discorso da almeno due schermi situati nelle sale nelle quali si trova.  Ammettono di farlo anche i piu’ celebri presentatori TV, in tutto il mondo.  Senza il “gobbo” torniamo tutti umani: con le indecisioni che fanno della nostra esistenza un percorso avventuroso. E di cio’ che abbiamo da dire, al nostro vicino di casa o al mondo, una testimonianza autentica.


Tre

175 all’ora.  E’ la velocità con cui il mio autista egiziano sta sfrecciando dal confine con la Libia verso il Cairo. Il sole è tramontato, per strada (una strada piena di buche) poche macchine ma molti autocarri in movimento a luci spente.  La vita, nel paese dei faraoni, si misura in millenni. Gli egiziani sono, praticamente, immortali.

Quattro

Minuscolo: ha la pelle scura, è alto un metro e venti, indossa una divisa perfettamente stirata e perfettamente aderente al suo corpo di bambino.  E lui è un bambino! Dirige il traffico a un incrocio di Bengazi. Il semaforo è spento, c’è questo ometto in mezzo alla strada a cui non serve nemmeno il fischietto per farsi rispettare. Alza il braccino, come catapultato verso l’alto  da una molla, e le macchine frenano. Rispettato. Temuto. Ammirato. Il poliziotto bambino sta gestendo la straordinaria transizione dalla dittatura alla democrazia.  E funziona.

Cinque

Zurigo: mi arresti, mi metta in prigione, getti pure la chiave. Mi viene da dirlo alla ragazza, bionda, in uniforme (Kantonspolizei Zuerich) che mi sta davanti al controllo bagagli a mano dell’aeroporto di Zurigo.  A un controllo chimico (routine) il mio bagaglio è risultato positivo al test degli esplosivi. Me lo sono portato ovunque, un giorno o l'altro doveva succedere: Gaza, Libia, Afghanistan (v. foto sopra), Libano. Qualcosina di esplosivo - dico: una particella minima – ci sarà pure restata, è normale. Vallo a spiegare (e dimostrare con tanto di tessera stampa ecc.) alla giovane addetta alla sicurezza. L’aereo, tuttavia, non l’ho perso. Succedeva prima della morte di Osama Bin Laden. Fosse successo dopo mi avrebbero lasciato passare con tanto di “buongiorno”. Non ne dubito. Vorrei tanto non dubitarne.   

mercoledì 4 maggio 2011

Osama e gli interrogativi (i miei)

Due spunti di riflessione ancora sulla questione Bin Laden. Primo: e se fosse stato catturato vivo? L'annuncio del funerale in mare, il tira e molla sulla pubblicazione delle fotografie, i leaks sul volto sfigurato da un proiettile, la decisione (finale?) del presidente Obama di non pubblicare le fotografie potrebbero essere una cortina fumogena per farci credere che Obama è davvero morto. Secondo: lo hanno ucciso perché agli Stati Uniti non serviva piu' come figura del cattivo planetario. La "primavera araba" ha spazzato via finora due dittatori (Egitto e Tunisia, Siria e Libia potrebbero presto seguire) che della lotta contro il terrorismo avevano fatto la giustificazione del loro potere assoluto che calpestava i diritti umani. Agli USA (e a tutto l'Occidente) andava bene cosi'. Adesso la musica sta cambiando, improvvisamente Stati Uniti e Occidente si dicono convinti che la democrazia è praticabile anche dai popoli arabi. Se lo avessero detto con Osama Bin Laden in vita (o perlomeno in circolazione) avrebbero dovuto rispondere alla domanda "perché non ve ne siete accorti prima?".  Possibile che lo abbiano sorvegliato per 5, 6 anni e abbiano deciso di intervenire soltanto ora? Nel Nord-Ovest del Pakistan gli USA non esitano a lanciare missili contro chiunque sia lontanamente sospettato di essere un Talebano o un membro di Al Qaida. Sparano anche sui matrimoni. Perché non intervenire prima, se sbagliavano avrebbero potuto dirsi che non era la prima volta. Stiamo tutti scrivendo la cronaca di un fatto di cui ignoriamo ancora troppe cose, esposti a una infinità di manipolazioni. La storia vera, che verrà alla luce chissà quando, credo sarà diversa. Un bel po' diversa. Restare vigili e fare domande. Molte domande.

Quella frase da film del presidente Obama


Ieri stavo camminando quando ho notato una sensazione strana e nuova: mi sentivo piu’ sicuro. Sono stato a fare due acquisti e la sensazione di sicurezza aumentava. Anche pensare all’aereo che prendero’ fra qualche giorno mi faceva sentire sicurissimo. Tornato a casa ho acceso il televisore e ho capito: il presidente degli Stati Uniti Barak Obama stava parlando, mi parlava. Stava dicendo che dopo l’uccisione di Osama Bin Laden il mondo è diventato un posto piu’ sicuro per tutti.  Quindi, ho concluso, anche per me. Improvvisamente sono tornato a sentirmi come prima.  Quella frase da film - “il mondo è messo meglio oggi rispetto a ieri” - mi ha fatto uscire dall’illusione nella quale ero inavvertitamente inciampato.  Il presidente Obama vuole convincerci che il mondo resta diviso fra buoni e cattivi e che quindi (di nuovo: come nella finzione piu’ popolare) morto il cattivo il bene trionferà. Fosse stato Bin Laden a uccidere Obama, lo sceicco avrebbe probabilmente pronunciato la stessa frase. Dal suo punto di vista non avrebbe fatto una piega. Ma quanti di noi lo avrebbero preso sul serio? Perché credere a Obama? Ha rispolverato la visione manichea del mondo di bushiana memoria (buoni di qua, cattivi di là) che ha un obiettivo soltanto: assopirci, toglierci il desiderio di fare domande scomode, di scavare alla ricerca delle radici della verità. Anche delle radici del “male”, che molto spesso si intrecciano con le altre, le radici del “bene”. La morte di Bin Laden non ha reso il mondo piu’ sicuro e  piu’ giusto.  E per come la sua morte ci è stata annunciata e in parte spiegata il mondo non è neppure cambiato. Osama Bin Laden aveva dato un volto (il suo) e un nome (Al Qaida), globalizzando entrambi,  a un processo che, localmente, prendeva parallelamente forma in terra islamica: la religione vissuta non soltanto in termini spirituali, ma anche (soprattutto) come resistenza e come affrancamento individuale messo a disposizione dell’intera comunità.  Un processo aperto a qualsiasi tipo di manipolazione. Era toccato ad Abu Omar,  che intervistai, due anni fa, in un campo profughi palestinese in Libano. Era un arsenale che camminava, uno di Al Qaida: aveva combattuto in Iraq, contro americani e forze locali, aveva fatto esplodere bombe. Perché? L’ideologia di Al Qaida era giunta fino a lui e improvvisamente aveva colmato il vuoto della sua esistenza, gli aveva consegnato una missione, aveva dato un senso alla sua vita. Ancora oggi sono convinto che se qualcuno fosse arrivato prima di Bin Laden e gli avesse offerto un lavoro o un compito diversi, ma carichi di autentica affermazione individuale,  Abu Omar questa occasione l’avrebbe presa al volo.  Andiamo in Afghanistan. Meno di un anno fa avevo incontrato  una persona colta,  abituata a frequentare occidentali.  Alla domanda “cosa ne pensi degli americani e degli occidentali nel tuo paese” la risposta è stata una dichiarazione di guerra: “che se li portino via i talebani, che se li porti via Bin Laden”.  L’esistenza del mio interlocutore non era immersa nel vuoto, ma nella rabbia e nell’impotenza di chi, nel suo paese “liberato” dall’Occidente, non vedeva segnali di progresso e non coglieva i frutti della “liberazione” promessi dieci anni prima.  Bin Laden aveva col tempo insediato i suoi slogan anche in questi spazi di amarezza. Era diventato come l’aspirina: hai male, la prendi e aspetti che faccia effetto.  Spesso non serve a nulla, ma ti senti meglio comunque. In un carcere fuori Kabul avevo incontrato un giovane pachistano, aveva 18 anni. Lo avevano arrestato prima che si facesse esplodere. Perché lo fai? “Perché mi hanno spiegato che è un onore per me e la mia famiglia”.  Chi glielo aveva spiegato? Bin Laden, i suoi uomini? O, piu’ probabilmente, qualche oscuro istitutore che nelle scuole coraniche pachistane costringe ogni giorno, ligio al dovere, centinaia di bambini a recitare il corano ad alta voce, storditi al punto tale da assorbire qualsiasi idea, da eseguire, un giorno, qualsiasi ordine?  Sarebbe ingenuo pensare che non ci saranno piu’ Abu Omar dopo la morte di Bin Laden. O intellettuali con la vita a pezzi in un paese ingannato da promesse fasulle. Oppure ragazzini pachistani pronti ad esplodere. Il mondo va meglio?  Il mondo resta come prima.  Con i problemi e le ingiustizie che le frasi ad effetto  vorrebbero coprire.